La pancia triste dell’America — 1. Sin Maíz no hay País

Diego Rivera, El mundo debe a México (1929-35). Palacio Nacional, Città del Messico.

di Stefano Filauro

Sin Maíz no hay País è lo slogan di successo di una campagna messicana contro lo sfruttamento intensivo delle risorse agricole, da parte delle grandi compagnie multinazionali. Ma non solo. “Sin Maíz no hay País” racconta molto di più di un trito slogan e offre al visitatore l’imbeccata perfetta per intraprendere un viaggio nell’arcipelago culinario messicano. Il mais infatti, Tlayolli nell’indigena lingua Nahuatl, appare dai finestrini dei camion che solcano il paese, le sue foglie costituiscono il tetto dei piccoli bar in legno che costellano le coste oceaniche e la sua pianta campeggia persino negli stemmi ufficiali degli Stati Federati.

Tutti gli sterminati 3200 km di estensione nazionale, dai desolati deserti di Chihuahua all’intricata e labirintica selva del Chiapas, sono innegabilmente accomunati da questo cereale che viene persino riconosciuto come l’eredità centrale delle civiltà preispaniche, come afferma il celebre murales di Diego Rivera al Palacio Nacional di Città del Messico (nell’immagine sopra).

Ubiqua e trasversale come il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che governa senza soluzione di continuità il Paese dal 1929 – esclusa la parentesi neoliberista 2000-2006 del governo di Vicente Fox – la farina di mais è l’elemento base che riempie le tavole messicane sotto forma di tortillas. Le stesse tortillas che vivono le metamorfosi delle cosmogonie precolombiane: che scaldate e presentate dentro i tortilleros vanno riempite di carne per diventare tacos, che farcite di formaggio diventano quesadillas, che allargate, fritte e condite vengono servite come tlayudas, che una volta tostate si tramutano in ottime tostadas da antipasto, che ripiene di condimenti vari e avvolte nelle stesse foglie di mais divengono tamales.

Se poi la tortilla invecchia e perde la sua fragranza, la vecchia ricetta della nonna prevede che venga ridotta in triangolini, fritta, e che vada poi a costituire la base per le zuppe, per le enchiladas e per i chilaquiles che guarniti con salsa verde o rossa e pollo bollito sono la colazione più servita nei ristoranti del Distrito Federal.

E il mais non è solo il naturale compagno della cucina quotidiana ma è anche il protagonista della cucina dei giorni di festa, come simboleggia il pozole, zuppa ottenuta con il processo di nixtamalizzazione del mais, preparato con carne di maiale e avocado. Rosso, quando è carico di chile, temibile e infuocato come le vette del Popocatépetl o bianco, nella variante dello stato di Guerrero, il pozole è un piatto di derivazione azteca, nato per celebrare le vittorie sui nemici, arricchito in periodo preispanico con la carne umana delle popolazioni sottomesse durante le lunghe guerre che portarono gli aztechi a dominare incontrastati l’area mesoamericana.

Sin Maíz no hay País” continuo a polemizzare col tassista che contrariato argomenta che il mais sarà pure la struttura, ma l’inderogabile sovrastruttura è la salsa: per cui mi pontifica quasi profetico che “es la salsa que le da el toque” o mi incalza proverbialmente con “el buen taquero se ve por la salsa”. Provo a convincerlo che le sue salse non avrebbero scopo alimentare o ricreativo se non venissero accompagnate da una buona tortilla, preparata a regola d’arte dalle mani callose di una navigata tortillera, ma le mie tesi materialistiche si scontrano inesorabilmente contro l’evangelico monito “de no solo pan vive el hombre” (Mt. 4,3-4), che mi recita con l’indice ieratico a chiudere ogni mio tentativo di replica. Sconfitto e redarguito mi accontento di farmi indicare dove servono in zona un pan de maíz dulce o una torta de maíz, perché anche i dolci in questi terra sono fatti dello stesso impasto delle tortillas. Infine, gli raccomando un chiosco di elotes callejeros – pannocchie grigliate su un braciere in strada, condite con sale, limone e formaggio grattugiato che si amalgama sulla pannocchia insieme al limone e con l’immancabile chile in polvere sparso a nuvolette in chiusura di rituale provocando lo starnuto dei passanti – che avevo sgranocchiato per caso in una delle infinite stazioni dei bus che punteggiano Città del Messico. Mi ringrazia calorosamente per il suggerimento mentre si congeda alla mia destinazione, un piccolo ma caloroso ristorante chilango che proprio nella combinazione degli elementi della della trilogia divina– maíz, chile e frijoles – si è consacrato al pubblico.

Ma ricordatevi che il Messico è uno Stato Federale e guai a toccarne le individualità nazionali per cui un sonorense, orgoglioso delle tradizioni del suo Stato, metterà in discussione la supremazia indiscussa del mais tra i cereali nazionali, ricordandovi che il clima torrido di Sonora permette la fiorente produzione di grano, che elaborato in tortillas accompagna i grossi e succosi crostacei del Mar di Cortés e della Baja California. Un chiapaneco invece, fiero discendente dei Maya a cui gli Aztechi dovevano apparire come dei guerrieri incolti e barbari potrà invece dibattere del mais come di un fattore unificante del Paese. Probabilmente sosterrà la tesi che l’unità del Paese è più una costruzione amministrativa che una realtà sentita dagli abitanti di Chiapas, il cui alto tasso di povertà stride con l’opulenza dei quartieri ricchi del Distrito Federal. E i combattivi abitanti di Morelios, furiosi con lo stato centrale, discuteranno il saldo commerciale del mais, attualmente negativo (Banco de Mexico, 2015) per via della massiccia importazione dagli scomodi vicini gringos, infelice epilogo per lo Stato natale di quel concreto visionario della terra condivisa che era Emiliano Zapata.

Preso nella tenaglia degli argomenti settentrionalisti in contrasto con quelli quasi secessionisti dei meridionalisti, non resterà che pacificare gli animi svicolando la discussione sulle preferenze in tema di carne le cui infinite provenienze, cotture, preparazioni, guarnizioni appagano ogni appetito e mettono d’accordo ogni forma di governo. Certo, vegetariani astenersi ma per il loro bisogno di proteine, in una dieta in cui l’assenza di carne è simbolo di devianza, ci saranno comunque i frijoles nelle loro numerose varietà, ma si sa, parlarne non è educato e le loro imbarazzanti manifestazioni digestive mal si conciliano con l’altisonante e controverso richiamo all’unità nazionale che “Sin Maíz no hay País” implica.


Riferimenti:

Banco de Mexico (2015), Balanza de Productos Agropecuarios.

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