La pancia triste dell’America — 4. Al nopal lo van a ver solo cuando tiene tunas

di Stefano Filauro

“Al nopal lo van a ver solo cuando tiene tunas” è un popolare proverbio messicano che in italiano potrebbe essere tradotto a un primo sguardo come: “Il cactus [nopal] lo notano solo quando porta i fichi d’india [tunas]”. Il proverbio può essere applicato ad una vasta casistica di situazioni di cui ne sono esempi calzanti l’improvviso interesse di un amministratore pubblico verso i suoi elettori in corrispondenza di una tornata elettorale, l’adulazione sperimentata da un fresco vincitore di una lotteria, le cure improvvise ricevute da un ricco moribondo sul letto di morte. Ovvero tutte circostanze accomunate dall’improvviso interesse procurato dal sorgere di una nuova contingenza, come è la maturazione dei colorati e succosi fichi d’india per un cactus.

Dunque per analogia, saremmo portati a pensare che il nopal non desti in condizioni abituali alcun interesse. Eppure, tale proverbio viene smentito da una lunga tradizione di cucina meso-americana che vede nella cactacea un formidabile ingrediente da cucina. E non solo, il nopal è anche molto altro, è un simbolo pluricentenario che entra di diritto nell’olimpo della simbologia nazionale.

Appare infatti nello scudo al centro della bandiera federale che riporta l’immagine stilizzata di un’aquila intenta a divorare un serpente appollaiata proprio su un grande nopal. Il variopinto scudo si ispira direttamente ad una nota leggenda precolombiana, quella della fondazione di Tenochtitlán, l’attuale Città del Messico. Si narra infatti che il Dio del Sole e della Guerra, Huitzilopochtli, avesse predetto alle popolazioni azteche che esse avrebbero trovato la loro terra promessa, foriera di prosperità e successi militari, nel luogo dove avessero scorto l’aquila sopra il nopal nell’atto di sbranare un serpente. Proprio su quell’area sorse mitologicamente Tenochtitlan, la cui etimologia nahuatl secondo recenti studi potrebbe proprio significare luogo dove crescono i fichi d’india sulla pietra.

Quello stesso nopal della mitologia azteca, che per ricchezza di immagini e potenza simbolica sbaraglia nettamente le più immaginifiche e occulte iconografie massoniche, è anche erede di una lunga tradizione alimentare per cui viene coltivato e commercializzato in tutto il suo paese. Da qui la sua mercificazione da simbolo stilizzato di identità nazionale a versatile ingrediente da cucina.

Una volta rimosse le spine infatti, in ragione della consistenza fibrosa delle sue foglie, il cactus diventa un alimento nutriente ben adattabile a insalate, zuppe, stufati e arrosti.

Così, dopo essere stato bollito e sfilettato, sarà possibile incontrare il nopal in numerosi piatti: ad esempio come ingrediente principe dell’insalata, accompagnato a pomodori, cipolla, chile e coriandolo oppure amalgamato con formaggio fuso come ripieno delle quesadillas.

E come scordarsi di menzionare i nopalitos en salsa verde o en chile rojo, le cui salse1 vengono usate per insaporire la foglia di nopal ridotta a pezzettini.

Dunque la secolare tradizione popolare che invita a disinteressarsi del nopal quando non sia carico di fichi d’india viene ampiamente sconfessata dalla prassi alimentare che lo vede un ingrediente largamente diffuso in tutto il paese.

E per testimoniare quanto il nopal sia presente non solo nella vita quotidiana e nella simbologia popolare, ma anche nella cultura nazionale, basta ricordare che quando a Carlos Fuentes fu chiesto durante un’intervista in quale essere vivente avrebbe voluto reincarnarsi, quel libero, curioso e celebrato intellettuale messicano rispose laconico: “En un nopal”.

Certo, in compagnia del suo tanto colorato quanto dolce frutto, la tuna, il nopal assume tutt’altro portamento. La tuna infatti si presenta normalmente in tre colori accesi – verde cipollino, arancio sbiadito o viola intenso – che si integrano magnificamente al verde scuro del nopal per caratterizzare un prototipico panorama desertico o balneare messicano.

Inoltre la tuna, decorticata e ripulita dalle sue piccole e ostiche spine, entra nella preparazione di svariati dolci e bevande. Licuados e jugos – frullati e succhi – di tuna sono molto dissetanti e diffusi, così come le rinomate gelatine e la golosa nieve. Quest’ultima è un rinfrescante gelato, quasi un sorbetto che, come suggerisce il nome, ricorda appunto la consistenza della neve.

E ancora le sue innumerevoli proprietà benefiche, già note alle popolazioni preispaniche, quali il suo potere diuretico, antidolorifico, antispasmodico e perfino anti-diarroico, rendono il frutto del nopal un naturale rimedio a molte pene, alleviando così le condizioni di popolazioni che, come nel caso di Città del Messico, vivono per larga parte senza accesso ad acqua potabile per gli usi più quotidiani, incrementando il loro rischio di soccombere a fastidiosi problemi gastrici.

Se dunque siete golosi della tuna se non volete fare a meno delle sue conclamate proprietà nutritive e del suo gusto fresco e acceso, vi ammoniamo però anche a non ignorare le sue verdi foglie, la sua robusta pianta, la sua spinosa origine mitologica. Così, giusto per evitare di finire schiacciati negli ingranaggi dell’infinità saggezza popolare, che accosta all’apprezzamento della tuna destituita del nopal solo secondi fini e interessi venali.


Note:

[1] Le stesse salse di condimento dei chilaquiles, vedi parte 1. ^

La pancia triste dell’America — 3. Cordero de Dios

di Stefano Filauro

Il ricchissimo, misterioso e messianico simbolismo dell’agnello nella cultura Giudaico-cristiano è stato oggetto di innumerevoli studi. L’interpretazione di più largo consenso vuole l’agnello come rappresentazione del sacrificio di Cristo, redentore dei peccati dell’umanità. Spostandoci però da un livello di lettura anagogico a uno più profano e materiale, mai la metafora del sacrificio dell’agnello è stata così evidente e tangibile come in alcuni stati messicani. È il caso dello stato di Jalisco, che alle carni ovine deve tanta parte della sua cultura, le sue tradizioni, perfino il nome della sua più celebrata e supportata squadra di calcio, le indomite “Chivas” [capre], club più tifato della nazione. Mentre infatti mi sporgo ad osservare le pecore che brucano nell’immenso allevamento di una birriería – ristorante specializzato in carne d’agnello – un cameriere di passaggio mi puntualizza che per una domenica qualsiasi il prezzo di sangue per rifornire il ristorante si aggira intorno agli 80 capretti. Così, giusto per prevenire una mia eventuale affezione verso il gregge innocentemente intento a belare e per ricordare che l’agnello è l’animale sacrificale per eccellenza.

Il tributo di sangue pagato dal borrego [l’agnello] e dal chivo [la capra] serve quindi a marcare una discontinuità nella supremazia totale che le carni suine e bovine ricoprono tra le carni nazionali. Cucinata alla barbacoa, di cui il barbecue angloamericano è un discendente diretto, o servita sotto forma di birria – stufato d’agnello in brodo di lime, cipolla e sfoglie di tortilla – la carne ovina è anche un potente strumento di recupero dagli eccessi alcoolici consumati in particolari occasioni di festa.

Inoltre, alla birria, o meglio alla sua assenza dalle altre cucine del globo, sono persino attribuiti i deludenti piazzamenti della nazionale messicana, che in una Coppa del Mondo non è mai riuscita a sfondare il muro dei quarti di finale – per gli amanti delle statistiche raggiunti solo nelle edizioni disputate in Messico.

Perché? La cultura popolare attribuisce gli scarsi risultati della nazionale alla “Sindrome del Jamaicón”. Tale sindrome prende il suo nome da “El Jamaicon”, al secolo José Villegas, talentuoso terzino destro degli anni ‘60, stella delle “Chivas di Guadalajara”, che si favoleggiava potesse contendere a Garrincha la palma di più abile laterale destro dei tempi.

Ebbene le origini di tale sindrome sono da ricercare in un curioso episodio occorso durante un tour europeo di preparazione al mondiale del 1962: durante una partita disputata a Wembley il Messico, che pur si presentava con una buona formazione, ricevette un sonoro e inaspettato 8-0 dall’Inghilterra. Intervistato al termine della partita, “el Jamaicón” rispose in ordine sparso al cronista che gli domandava le ragioni di tale disfatta che gli mancava la sua mamma, che la vita non era vita fuori dal Messico e che non poteva certo infilare una buona prestazione se erano giorni che non mangiava una buona birria!

Vi sono dunque la nostalgia della madrepatria e l’insostituibilità della sua cucina, nello specifico della birria, alla base dei fallimenti della nazionale messicana. Alcuni sostengono che tale sindrome verrà superata dall’internazionalizzazione che il calcio messicano sta intraprendendo, in leggero ritardo con gli andamenti del calcio mondiale, ormai votato al business, alla cultura del brand, sempre meno legato ai confini nazionali e sempre più sensibile ai grandi capitali stranieri, siano essi petrodollari o i rubli di passati monopoli pubblici.

Forse ha una sua punta di verità l’argomento della “Sindrome del Jamaicón” eppure, controbatto a un amico che discute animosamente del tema, se la nostalgia dei piatti nazionali nuoce ai calciatori messicani, la mancata abitudine ad apprezzarli, per contrappasso, affligge i turisti internazionali. Si tratta della rinomata “Vendetta di Montezuma”.

Tale vendetta si abbatte sui turisti ignari che si accingono fronteggiare le manifestazioni più profonde e indigeste, almeno ad uno stomaco occidentale, della cucina messicana. Numerosi sono infatti i racconti di sfrontati forestieri la cui inesperienza ed esuberanza viene punita spietatamente dal deposto imperatore azteco dopo che si siano avventurati ad assaggiare le fiammanti asperità del chiltepin sonorense, le strane consistenze dei chapulines, i celebri grilli fritti di Oaxaca, o le pesanti pietanze a base di chicharrón (vedi parte 2).

Montezuma, infatti, raggirato e trucidato in vita da Cortès, si vendica post-mortem inducendo perduranti e lancinanti dolori gastroenterici al malcapitato turista che si è avventurato su un sentiero culinario azzardato come azzardati furono i sentieri percorsi a cavallo dai primi avidi e sanguinari conquistadores ispanici prima di scoprire e annientare il più grande impero mesoamericano.

Di sicuro, per evitare di incorrere nella Vendetta di Montezuma è consigliata la peculiare, saporita ma inoffensiva carne di borrego o chivo, cucinata magari a fuoco vivo. Quel fuoco sempre presente anche nei murales di uno de “Los tres grandes muralistas mexicanos1, José Clemente Orozco, tormentato e prodigioso artista della prima metà del secolo scorso che attribuì insistentemente al fuoco il naturale connotato di purificazione e redenzione, contraltare laico all’agnello di origine cristiana.

Ed è proprio ai murales di Orozco, al mariachi e alla tequila che lo stato di Jalisco deve buona parte della sua meritata fama internazionale, il cui godimento presuppone molto spesso un piatto di birria come preparazione alla vista, all’ascolto o alla degustazione.


Note:

[1] Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros furono gli altri due “grandi” della stagione del muralismo messicano.^

La pancia triste dell’America — 2. El que come mi carne tiene vida eterna

di Stefano Filauro

“El que come mi carne y bebe mi sangre tiene vida eterna” recita un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6, 35-59) e pare proprio che, in una interpretazione profana, tale versetto sia stato interiorizzato a fondo nella società messicana. Solo con la promessa di vita eterna infatti è possibile spiegare come la carne sia così onnipresente alla sua quotidianità alimentare1.

Le proteine devono dunque davvero preparare l’eternità se il loro uso è così costante, lungo tutti e tre i pasti del giorno. Sebbene l’esibizione visiva della carne, in numerosi contesti urbani, sembra lontana dall’ideale asettico e sanitizzato degli Istituti Superiori di Igiene. La carne, sanguinolenta o stagionata, abbonda quindi nei mercati all’aperto dove i carniceros si premurano a scacciare gli eserciti di mosche che assediano filetti e tagliate, nei numerosi chioschi che appaiono spontanei all’uscita delle stazioni metro, dove più che il passaggio ai tornelli è lo sciame odoroso di macellazione e sangue rappreso ad avvertire il pendolare del ritorno all’esterno cittadino, nei crocicchi delle vie trafficate dove le carni grondano dai banchetti, negli ingressi delle fabbriche, dove su bracieri di fortuna si arrostisce il cochino – maiale in lingua indigena, etimologia derivata da cochini, dormiglione in Nahuatl, in onore alla proverbiale pigrizia suina.

E proprio in quei mercati in cui la carne in vendita rende l’aria graveolente e agrodolce, perfino gli alebrijes2 esposti nei banchetti di origine oaxaquena, hanno sembianze che richiamano maiali, capre e vacche.

Ma andiamo con ordine, c’è carne per ogni palato e per ogni elaborazione. Considerate solo il maiale, sbarcato al seguito di Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio nelle Americhe. Immaginate di entrare sovrappensiero in una taquería di medie dimensioni, ebbene all’affamato di turno basterebbe una razione di tacos ripieni di qualche tipo di carne e invece la prassi vuole che il cameriere vi interroghi su come vogliate farcirli. Cachete, costilla maciza, cuerito, buche, nana, nenepil, oreja, trompa. E questo solo se la specializzazione della taquería si limita al maiale!

Ogni qualvolta un joven – richiamo messicano al tavolo per camerieri di ogni età, sesso, estrazione sociale – vi sciorinerà questa lista, la sensazione sarà la stessa di puro spaesamento e perdita di punti di riferimento come quella provata dai primi indios che videro i conquistadores spagnoli cavalcare un cavallo.

A tal proposito vale la pena richiamare anche le radici storiche dell’allevamento dei capi di bestiame in Messico.
Prima di entrare a contatto con i colonizzatori europei, per assimilare proteine animali l’ingegnosa ed equilibrata dieta degli indios mesoamericani ricorreva a uccelli di lago, tacchini, cani nudi messicani, cinghiali, iguane e una vasta gamma di insetti, sempre frutto di caccia e mai di allevamento.

Questo ovviamente prima che gli indios venissero massacrati e sottomessi da Cortés e dai suoi conquistadores, inaugurando una scia di sangue che ancora continua a macchiare la storia e la cronaca messicana, con i frequenti assassini di giornalisti di inchiesta o la recente sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero, a presente monito della violenza che ancora alligna tra criminalità organizzata, narcos e istituzioni pubbliche corrotte o compiacenti ai grandi poteri criminali.

Eppure anche per la cucina messicana possiamo applicare l’adagio Oraziano: “Graecia capta ferum victorem cepit”, basta sostituire Mexico a Graecia e la proposizione è soddisfatta. Infatti le formidabili specialità alimentari preispaniche – tacos, tamales, pozoles etc. etc. – con le loro ricche salse, ben si prestarono ad accogliere i sapori delle carni di allevamento di maiali, vacche, polli e capre, appena importate dal vecchio mondo. E dunque anche l’equilibrio delle diete preispaniche venne archiviato in ragione della facilità di reperimento delle carni di allevamento.

Certo è che il monito: “El que come mi carne […] tiene vida eterna” impartito con la forza e con l’inganno dai primi missionari3 europei fu quindi prontamente recepito tant’è che anche oggi per molti messicani la prima colazione può ben prevedere chicharrón, cotica di maiale fritta4, oppure sottili strisce di cecina, carne di vitella marinata e cotta al sole.

Appunto l’annosa diatriba tra sostenitori della vacca contro fanatici del maiale è un leitmotiv delle preferenze alimentari nazionali5. Recenti dati vedono il consumo pro capite di carne suina in leggero vantaggio rispetto a quella bovina – 11,3 kg contro 9,9 kg, Ocse 2014 – ma quella che è una personale preferenza alimentare prende le sembianze di uno scontro di civiltà. Le feroci discussioni sulla presunta superiorità dei filetti teneri e asciutti di vitella sui ricchi e succulenti piatti a base suina o viceversa, minano l’unità di famiglie, partiti politici, persino club di tifosi calcistici, forse emulati solo dalle irresolubili diatribe su chi sia stato più bravo tra José Alfredo Jiménez o Agustín Lara, detto “el Flaco de oro”, celebri interpreti della stagione d’oro di musica leggera messicana dei formidabili anni ’50 e ’60.

Per fortuna la centenaria storia messicana insegna che ogni tipo di controversia può essere risolta intorno a un tavolo. Non sono infatti solo i feroci massacri, gli stermini di massa e la travagliata convivenza tra etnie diverse ad averla caratterizzata ma anche le grandi conferenze di pace, gli storici momenti di primato della ragione sulle armi. Il popolare quartiere di Tlatelolco, a Città del Messico, riassume questa duplice pendolarità della storia messicana: tristemente famoso per la mattanza di 300 studenti e lavoratori occorsa il 2 Ottobre 1968 nella sua Plaza de Las Tres Culturas, lo stesso quartiere l’anno prima era stato anche teatro della ratifica del Trattato di Tlatelolco, che proibì lo sviluppo delle armi nucleari in tutto il Latinamerica. Ed è forse in memoria all’afflato di ragionevolezza e civiltà del Trattato che anche le battaglie verbali su musica e carne si possono sempre risolvere pacificamente. Magari intorno ad una mesa dove nell’indecisione c’è sempre la possibilità di mettere d’accordo le due fazioni con tacos surtidos, in cui il ripieno spazia dal bistec de res alle carnitas de puerco, o al chile en nogada – peperone ripieno sia di carne bovina che suina, permettendo così la coesistenza di preferenze e istanze diverse, come il Partido Revolucionario Institucional (PRI) degli albori.

È poi naturale che alcune specialità regionali finiscono inevitabilmente per privilegiare un tipo di carne, come la cochinita pibil yucateca o la torta ahogada jalisciense, entrambe protese sullo spirito dionisiaco del maiale a scapito di quello apollineo del vitello. Tutto ciò senza dimenticarsi di pollo e agnello, ma questa è un’altra storia e l’oggetto di un’altra scheda che speriamo l’eternità insita nel richiamo evangelico a mangiare carne ci permetta di assolvere.


Riferimenti:

Ocse (2014). Oecd data: agricultural output.

Note:

[1] Ovviamente per i segmenti della popolazione che potevano e possono permetterla. ^

[2] Statuine di legno dipinto di ispirazione fantastica. ^

[3] Per chi fosse interessato, i primi missionari furono principalmente gesuiti, francescani e domenicani, ordinati in maniera crescente per sofferenze e crudeltà inflitte alle popolazioni locali durante la loro evangelizzazione coatta, sebbene vi furono anche casi di protezione degli indios contro le angherie ispaniche, come testimoniano i casi di Vasco de Quiroga, Bartolomé de las Casas, y Motolinía (Frate Toribio de Benavente). ^

[4] Il chicharrón è comunque consigliato in una miscela di fagioli avvolto in una gordita, torta salata di tortillas, anche se il suo consumo mattutino potrebbe rivelarsi di difficile digestione. ^

[5] Per gli interessati approfondire il dibattito res vs puerco. ^

La pancia triste dell’America — 1. Sin Maíz no hay País

di Stefano Filauro

Sin Maíz no hay País è lo slogan di successo di una campagna messicana contro lo sfruttamento intensivo delle risorse agricole, da parte delle grandi compagnie multinazionali. Ma non solo. “Sin Maíz no hay País” racconta molto di più di un trito slogan e offre al visitatore l’imbeccata perfetta per intraprendere un viaggio nell’arcipelago culinario messicano. Il mais infatti, Tlayolli nell’indigena lingua Nahuatl, appare dai finestrini dei camion che solcano il paese, le sue foglie costituiscono il tetto dei piccoli bar in legno che costellano le coste oceaniche e la sua pianta campeggia persino negli stemmi ufficiali degli Stati Federati.

Tutti gli sterminati 3200 km di estensione nazionale, dai desolati deserti di Chihuahua all’intricata e labirintica selva del Chiapas, sono innegabilmente accomunati da questo cereale che viene persino riconosciuto come l’eredità centrale delle civiltà preispaniche, come afferma il celebre murales di Diego Rivera al Palacio Nacional di Città del Messico (nell’immagine sopra).

Ubiqua e trasversale come il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che governa senza soluzione di continuità il Paese dal 1929 – esclusa la parentesi neoliberista 2000-2006 del governo di Vicente Fox – la farina di mais è l’elemento base che riempie le tavole messicane sotto forma di tortillas. Le stesse tortillas che vivono le metamorfosi delle cosmogonie precolombiane: che scaldate e presentate dentro i tortilleros vanno riempite di carne per diventare tacos, che farcite di formaggio diventano quesadillas, che allargate, fritte e condite vengono servite come tlayudas, che una volta tostate si tramutano in ottime tostadas da antipasto, che ripiene di condimenti vari e avvolte nelle stesse foglie di mais divengono tamales.

Se poi la tortilla invecchia e perde la sua fragranza, la vecchia ricetta della nonna prevede che venga ridotta in triangolini, fritta, e che vada poi a costituire la base per le zuppe, per le enchiladas e per i chilaquiles che guarniti con salsa verde o rossa e pollo bollito sono la colazione più servita nei ristoranti del Distrito Federal.

E il mais non è solo il naturale compagno della cucina quotidiana ma è anche il protagonista della cucina dei giorni di festa, come simboleggia il pozole, zuppa ottenuta con il processo di nixtamalizzazione del mais, preparato con carne di maiale e avocado. Rosso, quando è carico di chile, temibile e infuocato come le vette del Popocatépetl o bianco, nella variante dello stato di Guerrero, il pozole è un piatto di derivazione azteca, nato per celebrare le vittorie sui nemici, arricchito in periodo preispanico con la carne umana delle popolazioni sottomesse durante le lunghe guerre che portarono gli aztechi a dominare incontrastati l’area mesoamericana.

Sin Maíz no hay País” continuo a polemizzare col tassista che contrariato argomenta che il mais sarà pure la struttura, ma l’inderogabile sovrastruttura è la salsa: per cui mi pontifica quasi profetico che “es la salsa que le da el toque” o mi incalza proverbialmente con “el buen taquero se ve por la salsa”. Provo a convincerlo che le sue salse non avrebbero scopo alimentare o ricreativo se non venissero accompagnate da una buona tortilla, preparata a regola d’arte dalle mani callose di una navigata tortillera, ma le mie tesi materialistiche si scontrano inesorabilmente contro l’evangelico monito “de no solo pan vive el hombre” (Mt. 4,3-4), che mi recita con l’indice ieratico a chiudere ogni mio tentativo di replica. Sconfitto e redarguito mi accontento di farmi indicare dove servono in zona un pan de maíz dulce o una torta de maíz, perché anche i dolci in questi terra sono fatti dello stesso impasto delle tortillas. Infine, gli raccomando un chiosco di elotes callejeros – pannocchie grigliate su un braciere in strada, condite con sale, limone e formaggio grattugiato che si amalgama sulla pannocchia insieme al limone e con l’immancabile chile in polvere sparso a nuvolette in chiusura di rituale provocando lo starnuto dei passanti – che avevo sgranocchiato per caso in una delle infinite stazioni dei bus che punteggiano Città del Messico. Mi ringrazia calorosamente per il suggerimento mentre si congeda alla mia destinazione, un piccolo ma caloroso ristorante chilango che proprio nella combinazione degli elementi della della trilogia divina– maíz, chile e frijoles – si è consacrato al pubblico.

Ma ricordatevi che il Messico è uno Stato Federale e guai a toccarne le individualità nazionali per cui un sonorense, orgoglioso delle tradizioni del suo Stato, metterà in discussione la supremazia indiscussa del mais tra i cereali nazionali, ricordandovi che il clima torrido di Sonora permette la fiorente produzione di grano, che elaborato in tortillas accompagna i grossi e succosi crostacei del Mar di Cortés e della Baja California. Un chiapaneco invece, fiero discendente dei Maya a cui gli Aztechi dovevano apparire come dei guerrieri incolti e barbari potrà invece dibattere del mais come di un fattore unificante del Paese. Probabilmente sosterrà la tesi che l’unità del Paese è più una costruzione amministrativa che una realtà sentita dagli abitanti di Chiapas, il cui alto tasso di povertà stride con l’opulenza dei quartieri ricchi del Distrito Federal. E i combattivi abitanti di Morelios, furiosi con lo stato centrale, discuteranno il saldo commerciale del mais, attualmente negativo (Banco de Mexico, 2015) per via della massiccia importazione dagli scomodi vicini gringos, infelice epilogo per lo Stato natale di quel concreto visionario della terra condivisa che era Emiliano Zapata.

Preso nella tenaglia degli argomenti settentrionalisti in contrasto con quelli quasi secessionisti dei meridionalisti, non resterà che pacificare gli animi svicolando la discussione sulle preferenze in tema di carne le cui infinite provenienze, cotture, preparazioni, guarnizioni appagano ogni appetito e mettono d’accordo ogni forma di governo. Certo, vegetariani astenersi ma per il loro bisogno di proteine, in una dieta in cui l’assenza di carne è simbolo di devianza, ci saranno comunque i frijoles nelle loro numerose varietà, ma si sa, parlarne non è educato e le loro imbarazzanti manifestazioni digestive mal si conciliano con l’altisonante e controverso richiamo all’unità nazionale che “Sin Maíz no hay País” implica.


Riferimenti:

Banco de Mexico (2015), Balanza de Productos Agropecuarios.

L’osteria e la metropoli. La prima tavola delle Brigate Rosse

Incontriamo Loris Tonino Paroli nel ristorante da Gianni, a un tavolo dell’ampia sala da pranzo vicino al camino acceso in maiolica verde. Sulla parete opposta, il poster di una mostra di dipinti ad olio dello stesso Loris, le cui giornate oscillano oggi “tra l’orto e l’arte”, come ama ricordare, ma che per sedici lunghi anni si sono svolte nelle patrie galere dove scontava la sua militanza nelle Brigate Rosse. Militanza conclusasi nel 1975, quando venne arrestato e incriminato per costituzione di banda armata, associazione sovversiva e per aver partecipato alla liberazione di Renato Curcio in un assalto al carcere di Casale Monferrato guidato da Mara Cagol, che verrà uccisa pochi mesi dopo a seguito di uno scontro a fuoco con i carabinieri.

La sala principale è illuminata quasi esclusivamente dalla luce del sole pomeridiano che filtra dalla veranda, da dove ogni tanto si sente un gallo cantare dal pollaio retrostante. Paroli spiega che una credenza dei contadini locali vuole che il canto del gallo fuori orario sia presagio del tempo che sta per cambiare. Siamo a Paullo, località di Costaferrata, a 650 metri sul livello del mare e appena sopra la strada provinciale che da Reggio Emilia conduce all’Appennino. È qui che nel 1964 Gianni Incerti aprì il ristorante che porta il suo nome e che ancora oggi è gestito dalla moglie Anna e dai due figli Elvio e Robby. È proprio la signora Anna ad accoglierci spiegando premurosa che le luci interne della sala sono tenute volutamente basse per tenere le mosche lontane dal prosciutto che accompagna lo gnocco fritto.

Anna Incerti e Loris Paroli sono cugini. Anzi, come tengono a precisare, “cugini due volte”, da parte di madre e da parte di padre, in un complesso rapporto di parentela che sa di storie familiari che si perdono indietro negli anni. Per un curioso accidente della storia, proprio questa consanguineità è alla base di quello che divenne noto come “convegno di Pecorile”, l’atto di battesimo delle Brigate Rosse. Il borgo di Pecorile si trova in realtà diversi chilometri più sopra, ma negli anni sessanta era l’unico segnalato da un cartello stradale e così venne identificato retrospettivamente come il luogo di nascita della lotta armata in Italia: una delle tante e in fondo la minore delle inesattezze storiche che punteggiano le ricostruzioni della storia delle BR. A dare i natali all’organizzazione parrebbe invece essere stata proprio Costaferrata, e in particolare la sala del ristorante da Gianni.

Siamo nell’estate del 1970, appena dopo l’autunno caldo del ’69 e un inverno reso ancora più rovente dal tritolo detonato a Piazza Fontana. A seguito di quegli eventi e con l’esperienza dei gruppi extraparlamentari destinata a una svolta, i militanti che allora si raccoglievano dietro la sigla Sinistra Proletaria si trovarono di fronte alla necessità di riunirsi per discutere la propria strategia politica per il futuro. La scelta del luogo del convegno cadde sul ristorante da Gianni, ma per ragioni esclusivamente logistiche, spiega Paroli. Reggio Emilia poteva servire da punto intermedio tra il Nord Italia e Roma e, longitudinalmente, era pressoché equidistante tra i compagni genovesi, i Collettivi Politici Metropolitani di Milano e Torino e il gruppo di Renato Curcio e Mara Cagol proveniente dalla Facoltà di Sociologia di Trento. Proprio a Reggio, d’altronde, in un pied-à-terre sulla principale via Emilia aveva base il gruppo detto appunto “dell’appartamento”, di cui facevano parte i futuri brigatisti Prospero Gallinari, Alberto Franceschini e lo stesso Paroli. Fu quest’ultimo, nel luglio del 1970, a suggerire la locanda della cugina come luogo di riunione per accogliere le decine di giovani extraparlamentari radunatesi nel reggiano.

Oggi, nei locali del piano superiore della locanda non alloggiano più clienti ma i salami in stagionatura che vengono serviti con l’antipasto insieme al pecorino dell’Appennino. Ma anche in quei giorni ormai lontani il quasi centinaio di militanti convenuti dovette cercare ricovero presso le abitazioni locali per trovare ospitalità per la notte. Durante le discussioni diurne nella sala da pranzo del ristorante, invece, si delinearono secondo Paroli tre linee politiche che avrebbero contrassegnato l’estrema sinistra italiana negli anni successivi: chi si spostò verso l’area dell’autonomia, chi abbracciò la “superclandestinità”, e chi appoggiò invece la linea della “propaganda armata” e dell’“attività politico-militare”, sancendo di fatto la nascita delle BR.

La scelta della lotta armata e della clandestinità sarebbe maturata solo successivamente, come pure la sigla “Brigate Rosse” che alcuni attribuiscono a Mara Cagol, la quale avrebbe mutuato il nome della Rote Armee Fraktion tedesca, adattando l’impegnativo “Frazione Armata Rossa” nel più confacente “Brigata Rossa”. Altri, come Alberto Franceschini, fanno però nascere il celebre simbolo della stella cerchiata proprio sui tavoli del ristorante da Gianni. L’ispirazione sarebbe venuta dalla stella a cinque punte dei Tupamaros che in quegli stessi anni praticavano la propaganda armata in Uruguay; riprodotta a mano, la stella ne uscì deformata, con le due punte inferiori allungate, e qualcun altro ebbe l’idea di cerchiarla usando una moneta da 100 lire. La leggenda vuole anzi che le prime prove siano state incise a lama sulle panche dell’osteria, e che lì sarebbero rimaste per richiesta della questura se il signor Gianni, il titolare, estraneo alle vicende delle BR, non le avesse pragmaticamente utilizzate per compiere dei lavori di ristrutturazione.

Vincenzo Tessandori della Stampa una volta ha provato a ricostruire in cosa consistesse il pranzo di quei pochi giorni d’estate del 1970, con l’aiuto di un Paroli fresco della libertà appena riguadagnata. Salame nostrano e salsicce, prosciutto crudo e ciccioli come antipasto, aperto dal coro di Bella ciao. Seguirono i cappelletti in brodo e i tortelli di bietole, ma anche lasagne e cannelloni. E ancora arrosti misti, coniglio, faraona e agnello accompagnati da patate e insalata. Tutto per la modica cifra di quattromila lire. Un menu a dir poco corposo, che poteva servire a ristorare dopo estenuanti discussioni politiche ed escursioni preappenniniche, ma che con poche variazioni somiglia alla cucina tradizionale che da Gianni ripropone ancora oggi.

Quando Loris Tonino Paroli ci raggiunge al tavolo, abbiamo già abbondantemente consumato erbazzone e polenta fritta, oltre a una generosa porzione di tortelli con quattro ripieni diversi che Elvio ci ha servito in tavola direttamente con la padella, ma la signora Anna ci sta ancora chiedendo premurosa “cosa mangiamo volentieri”. Paroli si unisce in tempo per un brindisi con un bicchiere di lambrusco, prima del caffè che decidiamo di bere direttamente al bancone dietro cui si fronteggiano il ritratto del Che e quello di Marilyn. Di fronte, un tavolino su cui sono dispiegate l’edizione del giorno del Manifesto, della nuova Unità renziana, e la pagina sportiva della Gazzetta di Reggio. Anni fa c’era anche un ritratto giovanile della signora Anna, che il figlio Elvio giura assomigliasse in modo impressionante ad Anna Magnani, ma la diretta interessata lo fece rimuovere per riservatezza di fronte alla curiosità degli avventori. Immagini che sintetizzano bene l’atmosfera genuina del locale. Anche in quell’estate del 1970 nessuno poteva essere a conoscenza del futuro dispiegarsi degli eventi storici, né i diretti interessati, né tantomeno i coniugi Incerti che gestivano la trattoria, e neppure i carabinieri del posto, che dopo un controllo di routine non trovarono motivi per proseguire con ulteriori indagini.

D’altronde, voler forzare l’intera matrice politico-culturale delle Brigate Rosse nelle maglie esclusive di un contesto rurale fatto di tradizioni contadine e gloriose appartenenze politiche significa perderne tutta la complessità, fatta anche e soprattutto di fabbrica, metropoli e lotte operaie. Non solo i compagni della Pirelli, della Sit-Siemens, dell’Alfa, della Marelli e dell’IBM di Milano; anche Franceschini e lo stesso Paroli avevano conosciuto il padronato industriale reggiano, alle Officine Meccaniche Reggiane il primo, come tecnico rettificatore alla Lombardini Motori il secondo. Operaio alle Reggiane, del resto, era stato anche il padre di Anna, scendendo in bici fino ai cancelli dello stabilimento per fare ritorno in altura a fine turno. Persino Prospero Gallinari, che a lavorare nei campi ci era andato all’età di dodici anni, ha intitolato la sua autobiografia Un contadino nella metropoli, a sottolineare come l’esperienza armata sia stata legata alle lotte nel capitalismo avanzato più che a nostalgie resistenziali.

Dopo pranzo, Loris ci conduce in una passeggiata in quella che definisce con una punta di orgoglio il “suo” monte, un appezzamento sui calanchi appena sopra la provinciale ricevuto in eredità da uno zio. Di lì, tra il rosmarino e le sculture che il proprietario vi ha installato negli anni, si domina la vallata sottostante e il prospiciente castello dell’imperatrice Matilde di Canossa, memoria di fasti antichi quando, quasi mille anni prima del “convegno di Pecorile”, la zona era stata al centro delle vicende politiche di mezza Europa.

È qui che tornano in mente le divagazioni immaginifiche di Robby, il figlio minore di Gianni e Anna, che si definisce “pellerossa nell’anima” e che difatti porta i capelli coerentemente legati in due trecce alla maniera dei navajo. Nell’accoglierci all’ingresso da Gianni, ci parla del torrente Crostolo che scorre sotto Costaferrata e della simbologia dell’acqua generatrice di vita, ma anche della “pietra magica” di Bismantova, piccola vetta del vicino Appennino e luogo di culto già dal neolitico.

È lui ad offrirci involontariamente una suggestiva chiave di lettura complessiva della vicenda, prima di ritirarsi per riportare all’ordine una nidiata di recalcitranti gattini appena nati: “la gente di qua ama nascondersi”, sentenzia alludendo ai dualismi che da sempre accompagnano la storia politica locale. Poco più su, racconta, ad Albinea, aveva sede il comando tedesco preposto al controllo della Linea Gotica, ma nella stessa area operavano anche la 26a e la 145a Brigata Garibaldi, che sotto il comando alleato sferrarono un pesante attacco ai nazisti nella primavera del ’45. L’anno precedente, nella notte di San Giovanni, altri tre partigiani della 26a erano caduti in uno scontro a fuoco con i tedeschi in seguito a un attentato fallito. La rappresaglia tedesca si abbatté a colpi di mitra sugli ospiti della vicina locanda, che venne data alle fiamme in quello che sarà ricordato come l’“eccidio di Bettola”. Era solo la prima osteria del posto destinata a diventare teatro della Storia.

Cucina tedesca all’ombra del muro

Circa un centinaio di chilometri a sud-est di Berlino, prima che il fiume Sprea attraversi la capitale per poi confluire nello Havel, sorge il famoso Spreewald, il parco di 300 ettari che la combinazione di corsi d’acqua naturali e canali artificiali ha reso una meta ambita per turisti e sportivi (soprattutto ciclisti e canoisti), e che con la riunificazione della Germania è stato proclamato riserva della biosfera dall’UNESCO. Qui, la bassa altitudine, l’umidità e la fertilità del terreno hanno permesso il fiorire delle coltivazioni di rafano e, soprattutto, di cetrioli, da sempre tra i prodotti più rappresentativi del patrimonio gastronomico tedesco. Proprio su questi ultimi, anzi, si è combattuta negli anni ‘90 la “guerra del cetriolo” tra lo Spreewald e i suoi concorrenti (l’area bavarese, ma anche il territorio intorno ad Amburgo) per ottenere la protezione dell’indicazione geografica del prodotto, conferita dall’Unione Europea con l’unità.

Negli anni della Repubblica Democratica Tedesca, i cetrioli dello Spreewald in barattolo (aromatizzati con basilico, melissa e foglie di vite, di ciliegio o di noce) erano diventati bene di consumo quotidiano, tanto che nella commedia cult Good By,e Lenin! rappresentavano il simbolo dello smantellamento della pianificazione industriale socialista a favore dell’apertura al mercato internazionale: divenuti introvabili dopo l’unità, erano stati sostituiti, assieme al caffè Mocca Fix, ai cracker Fillinchen e ai legumi secchi Tempo, da più appetibili surrogati occidentali.

In realtà, i cetrioli erano sufficientemente radicati nella cultura alimentare tedesco-orientale da riuscire a sopravvivere alla varietà e all’offerta portata dalla riunificazione economica e dall’apertura all’occidente. Ma altri prodotti, come la leggendaria Vita-Cola – la mitica cola dell’est, amara e dal sentore di limone, introdotta negli anni ’50 con un piano quinquennale volto a promuovere i soft drink nel tentativo di arginare la piaga sociale dell’alcolismo – non hanno retto al crollo dei socialismi reali e hanno inevitabilmente perso una battaglia dall’esito già scritto, quella della competizione commerciale con le multinazionali della metà capitalistica del mondo. Qualche avvisaglia di cedimento alle sirene del libero mercato, in realtà, si era già avuta negli anni ’60 con la commercializzazione della Club Cola, più dolce e aromatica, introdotta proprio per emulare il gusto della Coca-Cola. Ma dato che, come insegna il padre teorico del socialismo moderno, la storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, le vecchie cole dell’est sono tornate in produzione in anni recenti, stavolta non più per effetto della pianificazione economica dal governo centrale quanto piuttosto per via di una rinata domanda commerciale che ha portato imprese private a rilevare le ricette originali.

Questo piccolo e in sostanza insignificante fenomeno di costume può essere ricondotto al più generale fenomeno divenuto noto con il nome Ostalgie (crasi tra Ost, est, e Nostalgie), concetto-ombrello che designa tanto la riappropriazione ironica e post-ideologica della simbologia veterocomunista da parte di chi è cresciuto nella Germania unificata e non ha ricordi della vita a est del muro, quanto una vera e propria nostalgia che molti ex-Ossi (tedeschi orientali) dichiarano di provare nei confronti per il sistema sociale della Germania democratica  dove nel bene o nel male disoccupazione e indigenza familiare erano a livelli minimi –, ma anche per una certa sensazione di comunità e di coesione che si respirava in un’epoca di disparità salariale inesistente e bassa competizione sociale.

Se l’industria agroalimentare della DDR è inevitabilmente crollata con il muro di Berlino insieme al sistema statale socialista, non è avvenuto lo stesso per una storica casa editrice di Lipsia, il Verlag für die Frau, letteralmente “casa editrice per la donna”, che come le altre aziende sopravvissute al crollo del muro è passata da nazionalizzata a privata. In origine dedicata principalmente alla moda e a quella che nelle nostre scuole si chiamava economia domestica (non senza qualche contraddizione con le promesse socialiste di emancipazione femminile), Verlag für die Frau pubblicava anche la più classica raccolta di ricette dell’Est, Unser großes Kochbuch, “Il nostro grande libro di cucina” (notare l’orgogliosa enfasi identitaria sul possessivo), al cui successo ha fatto seguito anche il corposo manuale Kochen, “Cucinare”, entrambi ristampati a tutt’oggi.

Furono pubblicazioni di questo tipo, insieme alle popolarissime trasmissioni televisive a tema culinario condotte dai cuochi Kurt Dummer e Rudolf Kroboth con uno straordinario anticipo di qualche decennio sulle mode degli ultimi anni, a contribuire alla creazione di una identità gastronomica in una terra tendenzialmente povera di materie prime come quella che rientrava nei confini della DDR. La base della cucina nazionale era costituita principalmente dal pesce proveniente dagli sbocchi sul Baltico a nord: tipiche le insalate di spratti, sorta di sardina baltica. Ma la parte del leone la faceva sicuramente la cucina tradizionale della Turingia, da sempre zona di agricoltura e allevamento intensivi e dunque a discreta disponibilità di carne e vegetali. Accanto ai tipici canederli di patate della cucina est-europea e alle immancabili Wurst, dunque, figuravano anche i Kochklopse, polpette bollite e servite in una salsa a base di fondo di cottura e capperi.

I piatti di carne, in effetti, e soprattutto di maiale, abbondavano sulle tavole dell’est, mentre scarseggiavano frutta e verdura, che erano, come le ha descritte la giornalista Jutta Voigt, “nemici di classe”, che “sabotavano per quanto potevano l’edificazione del socialismo”. Tra queste, la massima espressione del lusso borghese era ovviamente la frutta esotica, e in particolare le banane. Quando il muro venne definitivamente abbattuto e ondate di tedeschi orientali si riversarono all’Ovest, le scorte di banane nei supermercati federali andarono rapidamente esaurite, grazie ai 100 marchi cosiddetti “di benvenuto” che la Germania Ovest assegnava ai profughi della DDR già dall’anno prima, salvo poi sospendere la pratica a fronte della quantità inesaudibile di richieste. Anche l’euforia liberatoria per la “rivoluzione delle banane”, insomma, era destinata a vita breve.

La punta di diamante dell’allevamento della DDR era comunque il pollame, e in particolare il broiler, varietà di pollo rinomata per le sue carni abbondanti che lo rendevano indicatissimo per l’arrostitura. Il broiler divenne un elemento distintivo della cucina tedesco-orientale grazie, ancora una volta, allo chef televisivo e funzionario del partito Kurt Drummer. Ma ciò non avvenne che all’inizio degli anni ’60, dopo che il COMECON, l’organizzazione economica del Patto di Varsavia, chiuse le importazioni di carne da occidente: fu solo allora, infatti, che i tedeschi dell’Est dovettero ricorrere forzatamente a razze autoctone del blocco orientale. L’evento finì per fare la fortuna della piccola cittadina bulgara di Dobrič, all’epoca chiamata Tolbuchin in onore del maresciallo sovietico ed eroe di Stalingrado che la conquistò durante la Seconda Guerra Mondiale: fu principalmente qui che le importazioni si rivolsero, attirate dalla notizia che, con sforzi degni dell’Ordine di Lenin, l’allevamento locale riusciva a tirare su polli che arrivavano a pesare fino a 1,5 kg in meno di dieci settimane: i broiler appunto.

Le influenze sovietiche, in effetti, hanno lasciato una traccia profondissima nella cucina della Germania Est, e non solo dal punto di vista commerciale. Nei manuali di cucina della DDR un posto di rilievo lo occupa la Soljanka, una zuppa agrodolce di carne di origine ungherese, la cui preparazione, come ogni zuppa della tradizione, ha decine di varianti, ma che nella versione canonica tedesca prevede spezzatino di carne di maiale e di Wurst, pomodoro, peperoni, paprika e panna acida.

Le note agrodolci della cultura est-tedesca si estendevano, metaforicamente, anche al dolce. Se nella cucina domestica prevalevano i dolci da forno, nel 1952 un caffè di Pankow inventò invece una particolare coppa gelato per celebrare la sconfitta della nazionale di hockey dei rivali dell’ovest alle olimpiadi invernali di Oslo dello stesso anno. Dopo essere stata battuta nell’ordine da Canada, Stati Uniti e Cecoslovacchia, la Germania Ovest fu sconfitta definitivamente in casa dalla Svezia per 7 – 3. In onore di questa partita memorabile, la coppa di gelato alla vaniglia accompagnata da composta di mele e liquore allo zabaione e servita con panna e scaglie di cioccolato venne chiamata Schwedenbecher, “coppa di Svezia”. Schadenfreude in purezza.

Quella della DDR fu dunque una cucina che rifletteva fortemente le condizioni sociali e il clima politico del tempo. Persino lo street food più comune aveva un che di nazionalistico, almeno nel nome: gli hot dog erano ribattezzati Ketwurst, gli hamburger Grilletta, mentre il Toast-Hawaii con prosciutto e ananas introdotto in Germania dalle truppe americane veniva chiamato Karlsbader Schnitte o più familiarmente Karli al di là del muro. Nemmeno l’internazionalissima pizza si sottraeva alla riappropriazione culturale, condita con carne o sottaceti e ribattezzata Krusta. Non c’è da stupirsi allora che se polacchi e ungheresi continuavano negli anni ‘90 a mangiare sostanzialmente gli stessi piatti che preparavano sotto il patto di Varsavia, la cucina della DDR, complice l’occidentalizzazione spinta, contiene ricette e prodotti che in sostanza parlano interamente di un’altra epoca, inevitabilmente e irrimediabilmente sepolti con essa sotto le macerie del muro di Berlino.

La storia rivoluzionaria delle patate

Che l’aspetto materiale della vita umana sia motore della storia delle civiltà non è un’acquisizione di ieri. È nota infatti la massima di Karl Marx secondo cui “per poter ‘fare storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere, ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere”.

Sulla scorta di considerazioni di questo tipo, e seguendo la massima di Feuerbach secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”, il grande storico francese Fernand Braudel ha prestato grande attenzione a quelle che con un’espressione del geografo Maximilien Sorre ha definito “piante di civiltà”. Piante, cioè, in grado di influenzare così in profondità la vita quotidiana degli individui da essere loro stesse gli artefici della loro evoluzione sociale. Tra queste, la parte del leone la fanno ovviamente i cereali; grano e riso, in primis, tradizionalmente simboli della cultura materiale rispettivamente europea e orientale.

Ma sarebbe inappropriato concentrarsi su questi ultimi a scapito di quelle piante coltivate nel Nuovo Mondo che, sia pure lentamente e con difficoltà, sono penetrate nel vecchio. Tra queste, una storia che merita di essere raccontata l’hanno avuta le patate. Originaria dell’America andina, la patata fu scoperta in Perù dai conquistadores spagnoli che la introdussero in Europa verso la fine del XVI secolo. Qui fu essenzialmente snobbata per più di un secolo, salvo poi lentamente affermarsi come sostituto del pane, essendo, in quanto tubero sotterraneo, meno soggetta rispetto al grano alla distruzione da parte degli eserciti che attraversavano i campi di mezzo continente all’epoca delle guerre di successione.

Ricca di amidi e molto nutriente, la patata veniva consumata anche previa essiccazione, il che ne permetteva la conservazione per lunghi periodi. A differenza di gran parte dei cereali, poi, aveva il non trascurabile vantaggio di non richiedere l’utilizzo di macchinari per la decorticazione e, da che l’aratro aveva sostituito la zappa, poteva essere coltivata in maniera altrettanto efficiente del grano. Fu così che la patata affiancò il pane come alimento base dei contadini europei nell’età moderna. L’economista tedesco Wilhelm Roscher si è spinto anzi fino ad affermare che è nella patata che bisogna individuare la causa del boom demografico europeo di quegli anni.

Ma è in Gran Bretagna più che altrove che si può guardare alla patata come campione della storia del capitalismo moderno. All’epoca della rivoluzione industriale, infatti, la patata divenne alimento fondamentale per i lavoratori delle nascenti fabbriche a carbone, i quali potevano avvalersi di un prodotto naturale che fosse allo stesso tempo economico e coltivabile nei piccoli appezzamenti dei quartieri urbani nei quali sorgevano le manifatture e dove la disponibilità di campi aperti era quantomai scarsa. È a questo proposito che Friedrich Engels, acuto osservatore delle condizioni di vita della classe operaia inglese, ebbe a dire che la patata primeggiava col ferro per il suo “ruolo storicamente rivoluzionario”, ossia per aver permesso al capitalismo industriale di affermarsi definitivamente sul sistema economico fondiario.

Pochi anni dopo, fu il suo sodale Karl Marx a fare esperienza della miseria della vita urbana quando, dopo essere stato espulso dalla Francia per il suo ruolo di agitatore durante i moti del 1848, riparò a Londra. Qui, rimandando continuamente la pubblicazione del Capitale, la sua opera principale, è costretto a vivere dei suoi proventi di pubblicista e dei sussidi inviatigli da Engels. Vive in estrema povertà a Soho, oggi nel cuore della Londra posh ma all’epoca uno dei quartieri peggiori della città, in un misero edificio che adesso ospita un ristorante di lusso ma in cui Marx perse due figli per malnutrizione e uno per la tubercolosi. In una lettera del 1861, Karl scrive all’amico Engels: “Da otto o dieci giorni ho nutrito la famiglia con pane e patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi… Come debbo fare a farla finita con tutta questa merda del diavolo?”

La patata, dunque, come simbolo delle indigenti condizioni di vita del sottoproletariato urbano. Ma contro la lineare visione della storia di Engels, la patata ebbe un ruolo cruciale anche per il proletariato rurale irlandese. L’alta resa dei tuberi a fronte di una quantità limitata di terreno ne aveva causato la diffusione tra i braccianti senza terra. Un acro di terra coltivata a patate e il latte di una mucca bastavano infatti a sfamare decentemente una famiglia media irlandese, e in breve tempo la patata divenne l’unico mezzo di sussistenza possibile per le famiglie contadine, tanto che nel suo La ricchezza delle nazioni il grande economista scozzese Adam Smith la raccomandava ai britannici per l’alta resa e per l’alto potere nutritivo che aveva dimostrato agli irlandesi.

Come spesso accade agli economisti di professione, tuttavia, Smith non riuscì a prevedere l’arrivo di una crisi economica, sottovalutando i potenziali difetti di una monocoltura così intensiva e diffusa. A metà del XIX secolo, infatti, una terribile epidemia di peronospora – una malattia della patata che espone i tuberi agli attacchi di funghi e batteri trasformandoli in una poltiglia marcescente – devastò le coltivazioni di tutta l’Irlanda, provocando oltre un milione di morti tra carestia e malattie correlate e provocando la famosa ondata migratoria verso gli Stati Uniti. Quella che divenne nota come “Great Famine” (“grande carestia”, in irlandese “an Gorta Mór”) fu indiscutibilmente uno degli eventi più importanti e drammatici della storia dell’isola, divenendo parte integrante dell’immaginario popolare: la ballata folk The Fields of Athenry, ambientata ai tempi della carestia, è cantata ancora oggi come inno dai tifosi del Celtic F.C., la squadra degli immigrati irlandesi di Glasgow.

La carestia ebbe però il merito di aprire gli occhi a molti irlandesi sulla disparità tra le proprie condizioni e quelle dei britannici. La maggior parte dei latifondisti dell’isola era infatti di origine inglese, e ciò in un’epoca in cui l’Impero britannico era all’apice della sua ricchezza – ricchezza cui l’Irlanda sembrava non partecipare. Questa questione sociale assunse un carattere propriamente politico allorquando, ai primi allarmi sollevati riguardo il diffondersi della carestia, l’amministrazione britannica ne sottovalutò (o ne volle sottovalutare) i rischi, con effetti ovviamente disastrosi. Alcuni intellettuali irlandesi cominciarono allora una polemica contro il sistema di proprietà e di tassazione imposto dal governo inglese, sintetizzata nello slogan: “L’Onnipotente ha mandato la peronospora, ma gli inglesi hanno creato la carestia”.

I più radicali tra loro, radunatisi nel movimento “Giovane Irlanda”, scelsero l’insurrezione armata come mezzo di opposizione all’azione (o inazione) politica della corona, inserendosi nel quadro generale dei moti che sconvolsero l’Europa nel 1848, salvo essere definitivamente catturati e condannati a seguito di un fallito assalto ad un convoglio di polizia.

La peronospora scomparve con la seconda metà del XIX, ma con essa non si interruppe l’opposizione irlandese all’Unione. Né tanto meno si interruppe il legame storico tra patate e lotte contadine. Ce lo ricorda, ad esempio, una bella testimonianza di Giuseppina “Pucci” Saija, moglie di Raniero Panzieri, il sociologo che assieme a Mario Tronti, Toni Negri e gli altri intellettuali del gruppo dei Quaderni Rossi intravide e anticipò il sorgere del Sessantotto e dell’autunno caldo. All’inizio degli anni ’50, Panzieri era un giovane professore di filosofia del diritto dell’Università di Messina che, come ha ricordato un suo studente, “la mattina alle quattro occupava le terre e alle dieci entrava in aula ad insegnare”. Della sua attività politica in quel periodo, Pietro Nenni, all’epoca segretario del PSI, ebbe a dire: “Sono rimasto commosso nell’avvicinare in Sicilia i contadini delle città in cui si sono svolte le lotte, sentirmi ripetere il nome di questo giovane professore universitario sempre alla testa dei cortei e il primo a sfidare il fuoco della polizia. Ecco come si concilia la cultura con le lotte dei lavoratori”.

Al ricordo di questo periodo di militanza politica, la moglie di Panzieri ha legato soprattutto quello dei pasti consumati insieme agli altri “compagni” siciliani. Pasti necessariamente frugali e, neanche a dirlo, a base di patate:

“Devo dire che gli anni della Sicilia sono stati i più belli perché c’era una forza, un entusiasmo tra i compagni; ogni tanto Raniero telefonava alla padrona di casa e mi faceva chiamare e mi diceva: «Senti, prepara qualcosa da mangiare perché Mimmo e Nando [due studenti di Panzieri, ndr] non hanno un soldo in tasca e non possono neanche mangiare». Era proprio così. E allora io se avevo della pasta facevo della pasta, se avevo soltanto patate facevo un pentolone di patate bollite, compravo un panetto di burro e davo loro patate schiacciate con il burro, alla piemontese. Sai che sia Mimmo che Nando mi hanno detto la stessa cosa e cioè che hanno mantenuto questa abitudine di mangiare le patate bollite con il burro. Il ricordo della Sicilia, di questi compagni, dei sacrifici che facevano, dell’entusiasmo che avevano, la voglia di fare, non si stancavano mai, non mi abbandona. E capisci perché penso a quel periodo come a un periodo meraviglioso.”

Il sapore agrodolce del Regno di Mezzo

di Michele Mastandrea

Approcciare il mondo culinario di un paese come la Cina è particolarmente difficoltoso in termini di classificazione. Non solo per il fatto che ci sono 4 grandi famiglie (una per punto cardinale) e 8 scuole ufficiali di cucina che compongono la tradizione del Regno di Mezzo (Shandong, Sichuan, Jiangsu, Guangdong, Hunan, Fujian, Anhui e Zhejiang); ma anche perché ognuna di queste scuole contiene dentro di sé innumerevoli versioni regionali e rivisitazioni del singolo chef che le porta in tavola.

Un po’ come accade in relazione al linguaggio. Dove l’idioma ufficiale, il mandarino, è accompagnato da innumerevoli dialetti regionali; ma che spesso è letteralmente trasfigurato dall’ibridazione linguistica costruita dalle furibonde migrazioni che hanno scosso il paese sin dalle politiche di Apertura a guida Deng Xiaoping. Politiche che chiusero l’era maoista del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale, inaugurando l’attuale era turbocapitalista ben sintetizzata dal vecchio slogan denghista: “Arricchirsi è glorioso!”.

La cucina cinese può essere approcciata in diversi modi anche rispetto alla sua fruizione. Culturalmente, il mangiare “per fame”, tipico delle nostre latitudini, in Cina è meno importante rispetto al mangiare “per compagnia”. Mangiare è una festa collettiva; solitamente non si ordina ognuno il proprio piatto, ma l’ordine è unico, tutte le pietanze sono messe al centro del tavolo e vengono condivise tra tutti i commensali.

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Inoltre, le portate arrivano tutte già tagliate direttamente nella cucina, in modo che non ci sia alcuno sforzo o concentrazione nel sezionarle e dirigendo così l’attenzione verso la chiacchiera e la convivialità. Per questo una delle cose che vi stupirà in una tavola imbandita di un ristorante cinese è che non troverete quasi mai un coltello.

Ma oltre che dei ristoranti, la Cina è anche una delle capitali mondiali dello street food. Lasciate stare le paranoie occidentali delle malattie dovute alla scarsa igiene o dei cibi inquinati: sono tematiche presenti, ma non pensate che ci siano così tanti rischi da doversi sottomere al sacrificio di non assaggiare le meraviglie che trovate ad ogni angolo di strada delle città maggiori come di quelle piccole. E, per fare il verso a un vecchio pregiudizio, chissà cosa c’è in realtà dentro gli involtini primavera che mangiamo dalle nostre parti…

Prendete ad esempio il mercato notturno di Donghuamen, a Pechino, dove decine e decine di ristoratori armati di spiedini preparano succulenti mix di pesce, carne, verdure alla griglia, comprendendo nel menu anche scorpioni, cavallette e altri cibi eccentrici rispetto alle nostre abitudini. O alla città vecchia (Nanshi) di Shanghai, dove il mercato locale si mischia agli odori che arrivano da intere vie ricolme di apparenti bettole: nelle quali mangerete però i migliori ravioli al vapore (xiao long bai o shao-mei) della vostra vita.

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Oppure pensate alle ricchissime griglie degli uiguri, i musulmani dello Xinjiang, provincia autonoma situata a nord-ovest della Repubblica Popolare, vessata da un conflitto sempre più aspro tra l’etnia han e quella musulmana. Uno scontro sul cui fuoco soffiano sia il governo che lo utilizza a fini propagandistici e di coesione e consenso interni; sia una serie di attentati che altro non fanno se non concedere al governo la legittimità di innalzare i livelli repressivi.

Attacchi sempre più frequenti, in stile Al-Qaeda, che nel frattempo combattono anche gli embrioni, esistenti, di resistenza popolare di massa alla penetrazione economica e culturale del governo centrale. Lo street food uiguro, diffusissimo e amatissimo in tutta la Cina, è a livello sociale uno dei migliori biglietti da visita di una regione ricchissima di risorse ma plagiata dagli interessi di chi vuole metterci sopra le mani.

Tornando al filone principale, in Cina mangiare sembra quasi un’ossessione: si mangia a tutte le ore, dovunque sorgono piccoli e grandi ristoratori, mentre le varietà di snack, così come di risi, di noodles, di zuppe non si contano e soddisfano ogni tipo di gusto. Uscire a mangiare insieme è come per noi andare a bere, un momento collettivo di festa affrontato a suon di urla e baldorie. Certo, c’è chi non se lo può permettere: a decine, infatti, per le strade più affollate di esercizi alimentari, si trovano clochard che frugano nei cestini ala ricerca di qualche avanzo.

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È la dura realtà della polarizzazione sociale e del cambiamento di modello economico adottato dalla rampante Repubblica Popolare. In epoca maoista, semplificando molto, si scambiavano grandi fette della propria libertà individuale attraverso il contratto sociale della “ciotola di riso”; che significava lavoro e cibo sufficiente in cambio del consenso politico al regime. Ma attenzione, ciò valeva solo per gli abitanti delle città – e non tutte – che dovevano sostenere l’industrializzazione pesante soviet-style; nelle campagne si ricordano invece soprattutto i tempi delle grandi carestie.

Dalle riforme in poi, maggiore libertà economica ha significato invece perdere le poche certezze che si avevano in termini di welfare; con il risultato che arricchirsi è stato sì glorioso, ma non certo per tutti, visto che alcuni hanno compreso con amarezza che gli ascensori sociali del neoliberismo hanno anche fermate sottoterra. Insieme ad “Arricchirsi è glorioso!” l’altro slogan che circolava, meno famoso del primo, era infatti “Qualcuno si arricchirà prima degli altri!” Riletto oggi, suona come un oscuro presagio.

E come l’individuo cinese ormai raffronta sempre più la sua identità con quella dell’occidentale a cui si affianca ai vertici globali, anche la cultura cinese del cibo può essere letta anche a partire dalle relazioni con quelle straniere. È interessante infatti far notare che il riso e la pasta sono piatti conclusivi, non iniziali come da noi. Sono riempitivi, simboli di un passato di povertà e di stenti che ha contraddistinto la maggior parte della popolazione cinese fino a pochi decenni fa; di un piatto o di una cena, dire che “non ha reso utile il riso” significa ammetterne la bontà e soprattutto l’abbondanza.

Nella nuova Cina che aspira alla gerarchia del potere economico e politico globale invece ormai l’abbondanza sembra sempre di più diffusa tra la popolazione, come dall’altro lato sono sempre più diffuse anche le sacche di povertà che questa abbondanza non se la possono permettere. Ma questa è tutta un’altra storia, di diseguaglianze sociali e di crescita sbilanciata, e di un futuro allo stesso tempo fosco e radioso. Che talvolta le meraviglie che ogni zona di questo paese offre sembrano quasi far dimenticare.

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Fotoreportage dell’autore.

An interview with Yotam Ottolenghi

Yotam Ottolenghi inside his restaurant. Photo by Keiko Oikawa.
Yotam Ottolenghi inside his restaurant. Photo by Keiko Oikawa.

Roast potatoes and Jerusalem artichokes with lemon and sage. Camargue red rice and quinoa with orange and pistachios. Roasted aubergine with saffron yoghurt. Israeli-born chef Yotam Ottolenghi’s cooking style is particularly attentive to cultural traditions, especially Levantine and, more generally, Mediterranean. But blending and hybridating heritages is also important and, for Ottolenghi, a definitely enriching factor.

Ottolenghi himself was born and raised in the Jewish part of post-Six-Day War Jerusalem, the son of a German school principal and of an Italian engineer. Sami Tamimi, his business partner, comes from Palestinian Jerusalem and is the co-author of Jerusalem, Ottolenghi’s most recent book. In it, Jerusalem’s culture, culinary or otherwise, is exhibited in its extremely rich plurality. To name but one example, Yotam’s father Michael Ottolenghi used to cook a recipe similar to the cous cous with tomato and onion that Sami Tamimi’s mother used to make. This recipe, it turns out, comes from Jewish Tripolitania, where Michael’s great-uncle served as an admiral under Italian colonialism.

Today, Ottolenghi runs one restaurant and several popular delis all around London, all of which bear his name. He is best known to the British audience for his popular vegetarian column, which he wrote in the Guardian since 2006 and which resulted in the award-winning cookbook Plenty (2010).

However, his professional career did not start until 1997, when he decided, after a trip to Amsterdam, to quit his job at Ha’aretz and the PhD he had been offered, and start a cookery course in London. He then began to work at Kinghtsbridge’s bakery, where he met his current business partner and co-author Sami Tamimi.

The interior of one of Ottolenghi's restaurant. Photo by Keiko Oikawa.
The interior of one of Ottolenghi’s restaurants. Photo by Keiko Oikawa.

Could you please tell us how you decided to enrol at a cookery school and quit what would have otherwise been a brilliant career in journalism and academia?

Kind of you to say. I could have been a disastrous academic! I loved studying and writing my masters but I think I had too much energy to choose a sedentary career. I love talking and thinking and discovering new things but I’m much happier when I’m up and down between my computer and the kitchen, doing several things at once. When I was studying in my twenties, I was most at ease and most imaginative when cooking for my friends. Enrolling at cookery school was, I thought at the time, a way to just scratch the cooking itch. I guess I’m still scratching. I’m lucky: I’ve still got all the joy of thinking and discovering and writing but my library is just now full of lots of wonderful ingredients and cookery books.

You usually label your own style of cooking “sunny food”. How would you define this expression?

Food which makes people smile; food which calls to mind the sun of the Mediterranean; food people like to look at, want to eat and which makes them happy.

Why is the visual aspect so exceptionally important to your conception of food?

It’s all important to me – there’s no point in something looking great if it doesn’t taste perfect or if the various elements don’t all come seamlessly together – but, sure, the first bite it with the eye. Platters bursting full of colour and textures, freshly chopped green herbs, red slivers of fried chilli, creamy white yogurt. Food is a beautiful thing and I want mine to look immediately bounteous, welcoming, stunning: the very opposite of mean.

Why, as an omnivore, did you feel the need to write a vegetarian column in the Guardian and re-evaluate vegetarianism?

I didn’t ‘feel the need’ per se; the opportunity to write a vegetarian column came to me and I couldn’t see a reason to turn it down. So long as each dish has an internal logic, I’ve never been bound by rules in terms of what ‘should’ be in it. These boundaries – whether they are geographical or vegetarian, for example – are becoming increasingly fluid as lots of people make more flexible options to suit them rather than being confined by the black and white ‘rules’. I never set out to campaign or re-define vegetarianism: learning how versatile vegetables are and how much can be done with them has been as much a journey of discovery for me these past years. Only just the other day I roasted courgettes for the first time to make a baba ganoush, the way you would traditionally roast an aubergine: the result was a revelation!

Jerusalem coverYour most recent book, Jerusalem, is dense with digressions on the cultural background of recipes. How can a closer understanding of the cultural and social roots of food affect or even change our approach to it?

Ultimately, people want the food they make and eat to taste fantastically good. But, absolutely, knowing the background to a dish or making something that has been prepared by generations before one does grant a reverence to a meal that makes it very special. Sitting around and sharing the dish with friends and family, new and old, in the shadow of this history, creates a particular respect for the meal and a respect for the chats that are taking place around it. At the same time, though, it’s still got to taste darn delicious!

At Ottolenghi’s you actively support food products sourced from Palestinian growers. Is your attitude towards Palestine influenced at all by your conception of food?

We source products from all over – vinegar from Catalonia, Spain; seaweed from the Atlantic shores of Ireland and France, tahini from a small family business in Nazareth, Israel – and our first criteria is that they are the best quality ingredients we can find. But, absolutely, we’ve got a great relationship with Moon Valley Enterprises, a young British company that sources foods from across the Levant. Moon Valley has a particular focus on helping Palestinian farmers in the West Bank and strives to upgrade agricultural standards and help develop the region. I hope that this brings prosperity to them and, eventually, gets us all a little closer to peace.

Ottolenghi's Islington deli. Photo by Keiko Oikawa.
Ottolenghi’s Islington deli. Photo by Keiko Oikawa.

Intervista a Yotam Ottolenghi

Yotam Ottolenghi all'interno del suo ristorante. Foto di Keiko Oikawa.
Yotam Ottolenghi all’interno del suo ristorante. Foto di Keiko Oikawa.

Patate arrosto e carciofi di Gerusalemme con limone e salvia. Riso rosso della Camargue e quinoa con arancia e pistacchi. Melanzana arrosto con yogurt allo zafferano. La cucina dello chef anglo-israeliano Yotam Ottolenghi si caratterizza per il rispetto nei confronti delle tradizioni culturali, in particolare levantine e mediterranee in generale, ma anche per la loro contaminazione e ibridazione concepita come fattore di arricchimento.

Egli stesso, d’altronde, è nato e cresciuto nella parte ebraica della Gerusalemme post-guerra dei sei giorni, ma è di madre tedesca e, com’è facile intuire dal cognome, di padre italiano. Sami Tamimi, il suo socio professionale, è invece originario della Gerusalemme palestinese. Con lui Ottolenghi ha scritto il suo ultimo libro, intitolato appunto Jerusalem e pubblicato in Italia da Rizzoli. Qui, la cultura gastronomica (e non solo) di Gerusalemme viene ripercorsa e mostrata nella sua ricchissima pluralità. Per fare solo un esempio, una ricetta molto simile al cous cous con pomodoro e cipolla che usava preparare la madre di Sami Tamimi e preparata invece da Michael Ottolenghi, il padre di Yotam, si rivela essere originaria della Tripolitania ebraica, dove un prozio di Michael era stato ammiraglio all’epoca del colonialismo italiano.

Ad oggi, Ottolenghi gestisce un ristorante e diversi deli di grande successo sparsi per tutta Londra e tutti con l’insegna a proprio nome. È conosciuto al grande pubblico britannico soprattutto per la popolare rubrica vegetariana che ha condotto sul Guardian dal 2006, risultata nella pubblicazione del pluripremiato libro di ricette Plenty (2010).

Il suo percorso professionale ha però inizio solo nel 1997, quando, a seguito di un viaggio ad Amsterdam, decide di abbandonare il dottorato che aveva vinto e il lavoro alla redazione israeliana di Ha’aretz per iniziare un corso professionale di cucina a Londra. Di lì, l’esperienza lavorativa nella bakery di Knightsbridge a Londra e la conoscenza con il suo attuale partner professionale e co-autore Sami Tamimi.

L'interno di uno dei ristoranti di Ottolenghi. Foto di Keiko Oikawa.
L’interno di uno dei ristoranti di Ottolenghi. Foto di Keiko Oikawa.

Può dirci come ha deciso di iscriversi a una scuola di cucina e interrompere quella che altrimenti sarebbe stata una brillante carriera accademica e giornalistica?

Sei gentile a dirlo, ma sarei potuto essere un disastro come accademico! Mi è piaciuto studiare e scrivere la tesi, ma penso che avessi troppa energia per scegliere una carriera sedentaria. Mi piace parlare e pensare e scoprire cose nuove, ma sono molto più felice quando faccio avanti e indietro tra il computer e la cucina, facendo più cose alla volta. Da ventenne, quando studiavo, ero al massimo del mio agio e della mia immaginazione quando cucinavo per i miei amici. Iscrivermi a una scuola di cucina è stato, credo, un modo di coltivare il mio pallino per la cucina. Penso di starlo ancora coltivando, e sono fortunato: conservo ancora tutta la gioia del pensare e dello scoprire e dello scrivere, ma ora la mia biblioteca è piena di ingredienti meravigliosi e di libri di cucina.

Lei è solito chiamare il proprio stile di cucina “sunny food” (“cibo solare”). Come definirebbe questa espressione?

Cibo che faccia sorridere la gente, che richiami alla mente il sole del Mediterraneo, che la gente ami guardare e voglia mangiare, e che la renda felice.

Perché l’aspetto visivo è così straordinariamente importante nella sua concezione del cibo?

Per me è tutto importante: non ha senso che qualcosa abbia un bell’aspetto se il gusto non è ottimale e i vari elementi non si combinano alla perfezione. Però certo, il primo assaggio è con gli occhi. Portate che esplodono nella pienezza di colori e consistenze, il verde degli odori tagliati di fresco, le scaglie rosse di un peperoncino saltato, il bianco cremoso dello yogurt. Il cibo è una cosa bella, e io voglio che il mio appaia immediatamente come generoso, invitante e stupefacente. Esattamente l’opposto che parco.

Perché, da onnivoro, ha sentito l’esigenza di condurre una rubrica vegetariana sul Guardian e rivalutare il vegetarianismo?

Non è che abbia “sentito l’esigenza” di per sé; mi si è presentata l’occasione e non vedevo ragione di rifiutare. Nella misura in cui ogni piatto ha una sua logica interna, non mi sono mai sentito confinato da regole riguardo quello che “dovrebbe” esserci in esso. Questi confini, che siano geografici o vegetariani, diventano sempre più fluidi man mano che sempre più gente fa scelte più flessibili allo scopo di adattarsi piuttosto che sentirsi condizionata da regole del tipo “bianco o nero”. Non ho mai inteso promuovere o ridefinire il vegetarianismo; imparare quanto le verdure siano versatili e quanto si possa fare con esse è stato molto un viaggio di scoperta in questi ultimi anni. Giusto l’altro giorno ho arrostito delle zucchine per fare una baba ganush nello stesso modo in cui normalmente si arrostiscono le melanzane: il risultato è stato una rivelazione!

La copertina di <em>Jerusalem</em>.Il suo ultimo libro, Jerusalem, è denso di digressioni sul retroterra culturale delle ricette. In che modo una maggiore comprensione delle radici sociali e culturali del cibo può modificare il nostro approccio a esso?

Ultimamente, la gente vuole che il cibo che prepara e che mangia abbia un sapore eccellente. Ma assolutamente, conoscere il retroterra di un piatto o cucinare qualcosa che è stato preparato per generazioni prima garantisce una reverenza verso quel cibo che lo rendono particolarmente speciale. Sedersi in tondo e condividere il piatto con amici e famiglia (vecchi e nuovi) all’ombra della storia crea un particolare rispetto per quel cibo e per le conversazioni che hanno luogo intorno ad esso. Allo stesso tempo però, deve anche essere dannatamente delizioso!

Da Ottolenghi supportate attivamente prodotti alimentari provenienti da coltivatori palestinesi. La sua attitudine verso la Palestina è in qualche modo influenzata dalla sua concezione del cibo?

Facciamo arrivare prodotti da tutte le parti: l’aceto dalla Catalogna, le alghe dalle coste atlantiche di Irlanda e Francia, la tahina da una piccola azienda familiare di Nazareth, in Israele; il nostro primo criterio è che sono gli ingredienti della migliore qualità che possiamo trovare. Ma assolutamente, abbiamo un ottimo rapporto con le imprese Moon Valley, una giovane compagnia britannica che fornisce cibi da tutto il levante. Moon Valley ha una particolare attenzione nell’aiutare i contadini palestinesi in Cisgiordania e si batte per aumentare gli standard agricoli e aiutare lo sviluppo della regione. Spero che ciò porti loro prosperità e, alla fine, ci avvicini un po’ di più alla pace.

Il <em>deli</em> di Ottolenghi a Islington. Foto di Keiko Oikawa.
Il deli di Ottolenghi a Islington. Foto di Keiko Oikawa.