La pancia triste dell’America — 3. Cordero de Dios

José Clemente Orozco, El Hombre de Fuego. Hospicio Cabañas, Guadalajara.

di Stefano Filauro

Il ricchissimo, misterioso e messianico simbolismo dell’agnello nella cultura Giudaico-cristiano è stato oggetto di innumerevoli studi. L’interpretazione di più largo consenso vuole l’agnello come rappresentazione del sacrificio di Cristo, redentore dei peccati dell’umanità. Spostandoci però da un livello di lettura anagogico a uno più profano e materiale, mai la metafora del sacrificio dell’agnello è stata così evidente e tangibile come in alcuni stati messicani. È il caso dello stato di Jalisco, che alle carni ovine deve tanta parte della sua cultura, le sue tradizioni, perfino il nome della sua più celebrata e supportata squadra di calcio, le indomite “Chivas” [capre], club più tifato della nazione. Mentre infatti mi sporgo ad osservare le pecore che brucano nell’immenso allevamento di una birriería – ristorante specializzato in carne d’agnello – un cameriere di passaggio mi puntualizza che per una domenica qualsiasi il prezzo di sangue per rifornire il ristorante si aggira intorno agli 80 capretti. Così, giusto per prevenire una mia eventuale affezione verso il gregge innocentemente intento a belare e per ricordare che l’agnello è l’animale sacrificale per eccellenza.

Il tributo di sangue pagato dal borrego [l’agnello] e dal chivo [la capra] serve quindi a marcare una discontinuità nella supremazia totale che le carni suine e bovine ricoprono tra le carni nazionali. Cucinata alla barbacoa, di cui il barbecue angloamericano è un discendente diretto, o servita sotto forma di birria – stufato d’agnello in brodo di lime, cipolla e sfoglie di tortilla – la carne ovina è anche un potente strumento di recupero dagli eccessi alcoolici consumati in particolari occasioni di festa.

Inoltre, alla birria, o meglio alla sua assenza dalle altre cucine del globo, sono persino attribuiti i deludenti piazzamenti della nazionale messicana, che in una Coppa del Mondo non è mai riuscita a sfondare il muro dei quarti di finale – per gli amanti delle statistiche raggiunti solo nelle edizioni disputate in Messico.

Perché? La cultura popolare attribuisce gli scarsi risultati della nazionale alla “Sindrome del Jamaicón”. Tale sindrome prende il suo nome da “El Jamaicon”, al secolo José Villegas, talentuoso terzino destro degli anni ‘60, stella delle “Chivas di Guadalajara”, che si favoleggiava potesse contendere a Garrincha la palma di più abile laterale destro dei tempi.

Ebbene le origini di tale sindrome sono da ricercare in un curioso episodio occorso durante un tour europeo di preparazione al mondiale del 1962: durante una partita disputata a Wembley il Messico, che pur si presentava con una buona formazione, ricevette un sonoro e inaspettato 8-0 dall’Inghilterra. Intervistato al termine della partita, “el Jamaicón” rispose in ordine sparso al cronista che gli domandava le ragioni di tale disfatta che gli mancava la sua mamma, che la vita non era vita fuori dal Messico e che non poteva certo infilare una buona prestazione se erano giorni che non mangiava una buona birria!

Vi sono dunque la nostalgia della madrepatria e l’insostituibilità della sua cucina, nello specifico della birria, alla base dei fallimenti della nazionale messicana. Alcuni sostengono che tale sindrome verrà superata dall’internazionalizzazione che il calcio messicano sta intraprendendo, in leggero ritardo con gli andamenti del calcio mondiale, ormai votato al business, alla cultura del brand, sempre meno legato ai confini nazionali e sempre più sensibile ai grandi capitali stranieri, siano essi petrodollari o i rubli di passati monopoli pubblici.

Forse ha una sua punta di verità l’argomento della “Sindrome del Jamaicón” eppure, controbatto a un amico che discute animosamente del tema, se la nostalgia dei piatti nazionali nuoce ai calciatori messicani, la mancata abitudine ad apprezzarli, per contrappasso, affligge i turisti internazionali. Si tratta della rinomata “Vendetta di Montezuma”.

Tale vendetta si abbatte sui turisti ignari che si accingono fronteggiare le manifestazioni più profonde e indigeste, almeno ad uno stomaco occidentale, della cucina messicana. Numerosi sono infatti i racconti di sfrontati forestieri la cui inesperienza ed esuberanza viene punita spietatamente dal deposto imperatore azteco dopo che si siano avventurati ad assaggiare le fiammanti asperità del chiltepin sonorense, le strane consistenze dei chapulines, i celebri grilli fritti di Oaxaca, o le pesanti pietanze a base di chicharrón (vedi parte 2).

Montezuma, infatti, raggirato e trucidato in vita da Cortès, si vendica post-mortem inducendo perduranti e lancinanti dolori gastroenterici al malcapitato turista che si è avventurato su un sentiero culinario azzardato come azzardati furono i sentieri percorsi a cavallo dai primi avidi e sanguinari conquistadores ispanici prima di scoprire e annientare il più grande impero mesoamericano.

Di sicuro, per evitare di incorrere nella Vendetta di Montezuma è consigliata la peculiare, saporita ma inoffensiva carne di borrego o chivo, cucinata magari a fuoco vivo. Quel fuoco sempre presente anche nei murales di uno de “Los tres grandes muralistas mexicanos1, José Clemente Orozco, tormentato e prodigioso artista della prima metà del secolo scorso che attribuì insistentemente al fuoco il naturale connotato di purificazione e redenzione, contraltare laico all’agnello di origine cristiana.

Ed è proprio ai murales di Orozco, al mariachi e alla tequila che lo stato di Jalisco deve buona parte della sua meritata fama internazionale, il cui godimento presuppone molto spesso un piatto di birria come preparazione alla vista, all’ascolto o alla degustazione.


Note:

[1] Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros furono gli altri due “grandi” della stagione del muralismo messicano.^

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