La pancia triste dell’America — 4. Al nopal lo van a ver solo cuando tiene tunas

di Stefano Filauro

“Al nopal lo van a ver solo cuando tiene tunas” è un popolare proverbio messicano che in italiano potrebbe essere tradotto a un primo sguardo come: “Il cactus [nopal] lo notano solo quando porta i fichi d’india [tunas]”. Il proverbio può essere applicato ad una vasta casistica di situazioni di cui ne sono esempi calzanti l’improvviso interesse di un amministratore pubblico verso i suoi elettori in corrispondenza di una tornata elettorale, l’adulazione sperimentata da un fresco vincitore di una lotteria, le cure improvvise ricevute da un ricco moribondo sul letto di morte. Ovvero tutte circostanze accomunate dall’improvviso interesse procurato dal sorgere di una nuova contingenza, come è la maturazione dei colorati e succosi fichi d’india per un cactus.

Dunque per analogia, saremmo portati a pensare che il nopal non desti in condizioni abituali alcun interesse. Eppure, tale proverbio viene smentito da una lunga tradizione di cucina meso-americana che vede nella cactacea un formidabile ingrediente da cucina. E non solo, il nopal è anche molto altro, è un simbolo pluricentenario che entra di diritto nell’olimpo della simbologia nazionale.

Appare infatti nello scudo al centro della bandiera federale che riporta l’immagine stilizzata di un’aquila intenta a divorare un serpente appollaiata proprio su un grande nopal. Il variopinto scudo si ispira direttamente ad una nota leggenda precolombiana, quella della fondazione di Tenochtitlán, l’attuale Città del Messico. Si narra infatti che il Dio del Sole e della Guerra, Huitzilopochtli, avesse predetto alle popolazioni azteche che esse avrebbero trovato la loro terra promessa, foriera di prosperità e successi militari, nel luogo dove avessero scorto l’aquila sopra il nopal nell’atto di sbranare un serpente. Proprio su quell’area sorse mitologicamente Tenochtitlan, la cui etimologia nahuatl secondo recenti studi potrebbe proprio significare luogo dove crescono i fichi d’india sulla pietra.

Quello stesso nopal della mitologia azteca, che per ricchezza di immagini e potenza simbolica sbaraglia nettamente le più immaginifiche e occulte iconografie massoniche, è anche erede di una lunga tradizione alimentare per cui viene coltivato e commercializzato in tutto il suo paese. Da qui la sua mercificazione da simbolo stilizzato di identità nazionale a versatile ingrediente da cucina.

Una volta rimosse le spine infatti, in ragione della consistenza fibrosa delle sue foglie, il cactus diventa un alimento nutriente ben adattabile a insalate, zuppe, stufati e arrosti.

Così, dopo essere stato bollito e sfilettato, sarà possibile incontrare il nopal in numerosi piatti: ad esempio come ingrediente principe dell’insalata, accompagnato a pomodori, cipolla, chile e coriandolo oppure amalgamato con formaggio fuso come ripieno delle quesadillas.

E come scordarsi di menzionare i nopalitos en salsa verde o en chile rojo, le cui salse1 vengono usate per insaporire la foglia di nopal ridotta a pezzettini.

Dunque la secolare tradizione popolare che invita a disinteressarsi del nopal quando non sia carico di fichi d’india viene ampiamente sconfessata dalla prassi alimentare che lo vede un ingrediente largamente diffuso in tutto il paese.

E per testimoniare quanto il nopal sia presente non solo nella vita quotidiana e nella simbologia popolare, ma anche nella cultura nazionale, basta ricordare che quando a Carlos Fuentes fu chiesto durante un’intervista in quale essere vivente avrebbe voluto reincarnarsi, quel libero, curioso e celebrato intellettuale messicano rispose laconico: “En un nopal”.

Certo, in compagnia del suo tanto colorato quanto dolce frutto, la tuna, il nopal assume tutt’altro portamento. La tuna infatti si presenta normalmente in tre colori accesi – verde cipollino, arancio sbiadito o viola intenso – che si integrano magnificamente al verde scuro del nopal per caratterizzare un prototipico panorama desertico o balneare messicano.

Inoltre la tuna, decorticata e ripulita dalle sue piccole e ostiche spine, entra nella preparazione di svariati dolci e bevande. Licuados e jugos – frullati e succhi – di tuna sono molto dissetanti e diffusi, così come le rinomate gelatine e la golosa nieve. Quest’ultima è un rinfrescante gelato, quasi un sorbetto che, come suggerisce il nome, ricorda appunto la consistenza della neve.

E ancora le sue innumerevoli proprietà benefiche, già note alle popolazioni preispaniche, quali il suo potere diuretico, antidolorifico, antispasmodico e perfino anti-diarroico, rendono il frutto del nopal un naturale rimedio a molte pene, alleviando così le condizioni di popolazioni che, come nel caso di Città del Messico, vivono per larga parte senza accesso ad acqua potabile per gli usi più quotidiani, incrementando il loro rischio di soccombere a fastidiosi problemi gastrici.

Se dunque siete golosi della tuna se non volete fare a meno delle sue conclamate proprietà nutritive e del suo gusto fresco e acceso, vi ammoniamo però anche a non ignorare le sue verdi foglie, la sua robusta pianta, la sua spinosa origine mitologica. Così, giusto per evitare di finire schiacciati negli ingranaggi dell’infinità saggezza popolare, che accosta all’apprezzamento della tuna destituita del nopal solo secondi fini e interessi venali.


Note:

[1] Le stesse salse di condimento dei chilaquiles, vedi parte 1. ^

La pancia triste dell’America — 3. Cordero de Dios

di Stefano Filauro

Il ricchissimo, misterioso e messianico simbolismo dell’agnello nella cultura Giudaico-cristiano è stato oggetto di innumerevoli studi. L’interpretazione di più largo consenso vuole l’agnello come rappresentazione del sacrificio di Cristo, redentore dei peccati dell’umanità. Spostandoci però da un livello di lettura anagogico a uno più profano e materiale, mai la metafora del sacrificio dell’agnello è stata così evidente e tangibile come in alcuni stati messicani. È il caso dello stato di Jalisco, che alle carni ovine deve tanta parte della sua cultura, le sue tradizioni, perfino il nome della sua più celebrata e supportata squadra di calcio, le indomite “Chivas” [capre], club più tifato della nazione. Mentre infatti mi sporgo ad osservare le pecore che brucano nell’immenso allevamento di una birriería – ristorante specializzato in carne d’agnello – un cameriere di passaggio mi puntualizza che per una domenica qualsiasi il prezzo di sangue per rifornire il ristorante si aggira intorno agli 80 capretti. Così, giusto per prevenire una mia eventuale affezione verso il gregge innocentemente intento a belare e per ricordare che l’agnello è l’animale sacrificale per eccellenza.

Il tributo di sangue pagato dal borrego [l’agnello] e dal chivo [la capra] serve quindi a marcare una discontinuità nella supremazia totale che le carni suine e bovine ricoprono tra le carni nazionali. Cucinata alla barbacoa, di cui il barbecue angloamericano è un discendente diretto, o servita sotto forma di birria – stufato d’agnello in brodo di lime, cipolla e sfoglie di tortilla – la carne ovina è anche un potente strumento di recupero dagli eccessi alcoolici consumati in particolari occasioni di festa.

Inoltre, alla birria, o meglio alla sua assenza dalle altre cucine del globo, sono persino attribuiti i deludenti piazzamenti della nazionale messicana, che in una Coppa del Mondo non è mai riuscita a sfondare il muro dei quarti di finale – per gli amanti delle statistiche raggiunti solo nelle edizioni disputate in Messico.

Perché? La cultura popolare attribuisce gli scarsi risultati della nazionale alla “Sindrome del Jamaicón”. Tale sindrome prende il suo nome da “El Jamaicon”, al secolo José Villegas, talentuoso terzino destro degli anni ‘60, stella delle “Chivas di Guadalajara”, che si favoleggiava potesse contendere a Garrincha la palma di più abile laterale destro dei tempi.

Ebbene le origini di tale sindrome sono da ricercare in un curioso episodio occorso durante un tour europeo di preparazione al mondiale del 1962: durante una partita disputata a Wembley il Messico, che pur si presentava con una buona formazione, ricevette un sonoro e inaspettato 8-0 dall’Inghilterra. Intervistato al termine della partita, “el Jamaicón” rispose in ordine sparso al cronista che gli domandava le ragioni di tale disfatta che gli mancava la sua mamma, che la vita non era vita fuori dal Messico e che non poteva certo infilare una buona prestazione se erano giorni che non mangiava una buona birria!

Vi sono dunque la nostalgia della madrepatria e l’insostituibilità della sua cucina, nello specifico della birria, alla base dei fallimenti della nazionale messicana. Alcuni sostengono che tale sindrome verrà superata dall’internazionalizzazione che il calcio messicano sta intraprendendo, in leggero ritardo con gli andamenti del calcio mondiale, ormai votato al business, alla cultura del brand, sempre meno legato ai confini nazionali e sempre più sensibile ai grandi capitali stranieri, siano essi petrodollari o i rubli di passati monopoli pubblici.

Forse ha una sua punta di verità l’argomento della “Sindrome del Jamaicón” eppure, controbatto a un amico che discute animosamente del tema, se la nostalgia dei piatti nazionali nuoce ai calciatori messicani, la mancata abitudine ad apprezzarli, per contrappasso, affligge i turisti internazionali. Si tratta della rinomata “Vendetta di Montezuma”.

Tale vendetta si abbatte sui turisti ignari che si accingono fronteggiare le manifestazioni più profonde e indigeste, almeno ad uno stomaco occidentale, della cucina messicana. Numerosi sono infatti i racconti di sfrontati forestieri la cui inesperienza ed esuberanza viene punita spietatamente dal deposto imperatore azteco dopo che si siano avventurati ad assaggiare le fiammanti asperità del chiltepin sonorense, le strane consistenze dei chapulines, i celebri grilli fritti di Oaxaca, o le pesanti pietanze a base di chicharrón (vedi parte 2).

Montezuma, infatti, raggirato e trucidato in vita da Cortès, si vendica post-mortem inducendo perduranti e lancinanti dolori gastroenterici al malcapitato turista che si è avventurato su un sentiero culinario azzardato come azzardati furono i sentieri percorsi a cavallo dai primi avidi e sanguinari conquistadores ispanici prima di scoprire e annientare il più grande impero mesoamericano.

Di sicuro, per evitare di incorrere nella Vendetta di Montezuma è consigliata la peculiare, saporita ma inoffensiva carne di borrego o chivo, cucinata magari a fuoco vivo. Quel fuoco sempre presente anche nei murales di uno de “Los tres grandes muralistas mexicanos1, José Clemente Orozco, tormentato e prodigioso artista della prima metà del secolo scorso che attribuì insistentemente al fuoco il naturale connotato di purificazione e redenzione, contraltare laico all’agnello di origine cristiana.

Ed è proprio ai murales di Orozco, al mariachi e alla tequila che lo stato di Jalisco deve buona parte della sua meritata fama internazionale, il cui godimento presuppone molto spesso un piatto di birria come preparazione alla vista, all’ascolto o alla degustazione.


Note:

[1] Diego Rivera e David Alfaro Siqueiros furono gli altri due “grandi” della stagione del muralismo messicano.^

La pancia triste dell’America — 2. El que come mi carne tiene vida eterna

di Stefano Filauro

“El que come mi carne y bebe mi sangre tiene vida eterna” recita un passo del Vangelo di Giovanni (Gv 6, 35-59) e pare proprio che, in una interpretazione profana, tale versetto sia stato interiorizzato a fondo nella società messicana. Solo con la promessa di vita eterna infatti è possibile spiegare come la carne sia così onnipresente alla sua quotidianità alimentare1.

Le proteine devono dunque davvero preparare l’eternità se il loro uso è così costante, lungo tutti e tre i pasti del giorno. Sebbene l’esibizione visiva della carne, in numerosi contesti urbani, sembra lontana dall’ideale asettico e sanitizzato degli Istituti Superiori di Igiene. La carne, sanguinolenta o stagionata, abbonda quindi nei mercati all’aperto dove i carniceros si premurano a scacciare gli eserciti di mosche che assediano filetti e tagliate, nei numerosi chioschi che appaiono spontanei all’uscita delle stazioni metro, dove più che il passaggio ai tornelli è lo sciame odoroso di macellazione e sangue rappreso ad avvertire il pendolare del ritorno all’esterno cittadino, nei crocicchi delle vie trafficate dove le carni grondano dai banchetti, negli ingressi delle fabbriche, dove su bracieri di fortuna si arrostisce il cochino – maiale in lingua indigena, etimologia derivata da cochini, dormiglione in Nahuatl, in onore alla proverbiale pigrizia suina.

E proprio in quei mercati in cui la carne in vendita rende l’aria graveolente e agrodolce, perfino gli alebrijes2 esposti nei banchetti di origine oaxaquena, hanno sembianze che richiamano maiali, capre e vacche.

Ma andiamo con ordine, c’è carne per ogni palato e per ogni elaborazione. Considerate solo il maiale, sbarcato al seguito di Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio nelle Americhe. Immaginate di entrare sovrappensiero in una taquería di medie dimensioni, ebbene all’affamato di turno basterebbe una razione di tacos ripieni di qualche tipo di carne e invece la prassi vuole che il cameriere vi interroghi su come vogliate farcirli. Cachete, costilla maciza, cuerito, buche, nana, nenepil, oreja, trompa. E questo solo se la specializzazione della taquería si limita al maiale!

Ogni qualvolta un joven – richiamo messicano al tavolo per camerieri di ogni età, sesso, estrazione sociale – vi sciorinerà questa lista, la sensazione sarà la stessa di puro spaesamento e perdita di punti di riferimento come quella provata dai primi indios che videro i conquistadores spagnoli cavalcare un cavallo.

A tal proposito vale la pena richiamare anche le radici storiche dell’allevamento dei capi di bestiame in Messico.
Prima di entrare a contatto con i colonizzatori europei, per assimilare proteine animali l’ingegnosa ed equilibrata dieta degli indios mesoamericani ricorreva a uccelli di lago, tacchini, cani nudi messicani, cinghiali, iguane e una vasta gamma di insetti, sempre frutto di caccia e mai di allevamento.

Questo ovviamente prima che gli indios venissero massacrati e sottomessi da Cortés e dai suoi conquistadores, inaugurando una scia di sangue che ancora continua a macchiare la storia e la cronaca messicana, con i frequenti assassini di giornalisti di inchiesta o la recente sparizione dei 43 studenti di Ayotzinapa, nello stato di Guerrero, a presente monito della violenza che ancora alligna tra criminalità organizzata, narcos e istituzioni pubbliche corrotte o compiacenti ai grandi poteri criminali.

Eppure anche per la cucina messicana possiamo applicare l’adagio Oraziano: “Graecia capta ferum victorem cepit”, basta sostituire Mexico a Graecia e la proposizione è soddisfatta. Infatti le formidabili specialità alimentari preispaniche – tacos, tamales, pozoles etc. etc. – con le loro ricche salse, ben si prestarono ad accogliere i sapori delle carni di allevamento di maiali, vacche, polli e capre, appena importate dal vecchio mondo. E dunque anche l’equilibrio delle diete preispaniche venne archiviato in ragione della facilità di reperimento delle carni di allevamento.

Certo è che il monito: “El que come mi carne […] tiene vida eterna” impartito con la forza e con l’inganno dai primi missionari3 europei fu quindi prontamente recepito tant’è che anche oggi per molti messicani la prima colazione può ben prevedere chicharrón, cotica di maiale fritta4, oppure sottili strisce di cecina, carne di vitella marinata e cotta al sole.

Appunto l’annosa diatriba tra sostenitori della vacca contro fanatici del maiale è un leitmotiv delle preferenze alimentari nazionali5. Recenti dati vedono il consumo pro capite di carne suina in leggero vantaggio rispetto a quella bovina – 11,3 kg contro 9,9 kg, Ocse 2014 – ma quella che è una personale preferenza alimentare prende le sembianze di uno scontro di civiltà. Le feroci discussioni sulla presunta superiorità dei filetti teneri e asciutti di vitella sui ricchi e succulenti piatti a base suina o viceversa, minano l’unità di famiglie, partiti politici, persino club di tifosi calcistici, forse emulati solo dalle irresolubili diatribe su chi sia stato più bravo tra José Alfredo Jiménez o Agustín Lara, detto “el Flaco de oro”, celebri interpreti della stagione d’oro di musica leggera messicana dei formidabili anni ’50 e ’60.

Per fortuna la centenaria storia messicana insegna che ogni tipo di controversia può essere risolta intorno a un tavolo. Non sono infatti solo i feroci massacri, gli stermini di massa e la travagliata convivenza tra etnie diverse ad averla caratterizzata ma anche le grandi conferenze di pace, gli storici momenti di primato della ragione sulle armi. Il popolare quartiere di Tlatelolco, a Città del Messico, riassume questa duplice pendolarità della storia messicana: tristemente famoso per la mattanza di 300 studenti e lavoratori occorsa il 2 Ottobre 1968 nella sua Plaza de Las Tres Culturas, lo stesso quartiere l’anno prima era stato anche teatro della ratifica del Trattato di Tlatelolco, che proibì lo sviluppo delle armi nucleari in tutto il Latinamerica. Ed è forse in memoria all’afflato di ragionevolezza e civiltà del Trattato che anche le battaglie verbali su musica e carne si possono sempre risolvere pacificamente. Magari intorno ad una mesa dove nell’indecisione c’è sempre la possibilità di mettere d’accordo le due fazioni con tacos surtidos, in cui il ripieno spazia dal bistec de res alle carnitas de puerco, o al chile en nogada – peperone ripieno sia di carne bovina che suina, permettendo così la coesistenza di preferenze e istanze diverse, come il Partido Revolucionario Institucional (PRI) degli albori.

È poi naturale che alcune specialità regionali finiscono inevitabilmente per privilegiare un tipo di carne, come la cochinita pibil yucateca o la torta ahogada jalisciense, entrambe protese sullo spirito dionisiaco del maiale a scapito di quello apollineo del vitello. Tutto ciò senza dimenticarsi di pollo e agnello, ma questa è un’altra storia e l’oggetto di un’altra scheda che speriamo l’eternità insita nel richiamo evangelico a mangiare carne ci permetta di assolvere.


Riferimenti:

Ocse (2014). Oecd data: agricultural output.

Note:

[1] Ovviamente per i segmenti della popolazione che potevano e possono permetterla. ^

[2] Statuine di legno dipinto di ispirazione fantastica. ^

[3] Per chi fosse interessato, i primi missionari furono principalmente gesuiti, francescani e domenicani, ordinati in maniera crescente per sofferenze e crudeltà inflitte alle popolazioni locali durante la loro evangelizzazione coatta, sebbene vi furono anche casi di protezione degli indios contro le angherie ispaniche, come testimoniano i casi di Vasco de Quiroga, Bartolomé de las Casas, y Motolinía (Frate Toribio de Benavente). ^

[4] Il chicharrón è comunque consigliato in una miscela di fagioli avvolto in una gordita, torta salata di tortillas, anche se il suo consumo mattutino potrebbe rivelarsi di difficile digestione. ^

[5] Per gli interessati approfondire il dibattito res vs puerco. ^

La pancia triste dell’America — 1. Sin Maíz no hay País

di Stefano Filauro

Sin Maíz no hay País è lo slogan di successo di una campagna messicana contro lo sfruttamento intensivo delle risorse agricole, da parte delle grandi compagnie multinazionali. Ma non solo. “Sin Maíz no hay País” racconta molto di più di un trito slogan e offre al visitatore l’imbeccata perfetta per intraprendere un viaggio nell’arcipelago culinario messicano. Il mais infatti, Tlayolli nell’indigena lingua Nahuatl, appare dai finestrini dei camion che solcano il paese, le sue foglie costituiscono il tetto dei piccoli bar in legno che costellano le coste oceaniche e la sua pianta campeggia persino negli stemmi ufficiali degli Stati Federati.

Tutti gli sterminati 3200 km di estensione nazionale, dai desolati deserti di Chihuahua all’intricata e labirintica selva del Chiapas, sono innegabilmente accomunati da questo cereale che viene persino riconosciuto come l’eredità centrale delle civiltà preispaniche, come afferma il celebre murales di Diego Rivera al Palacio Nacional di Città del Messico (nell’immagine sopra).

Ubiqua e trasversale come il Partido Revolucionario Institucional (PRI) che governa senza soluzione di continuità il Paese dal 1929 – esclusa la parentesi neoliberista 2000-2006 del governo di Vicente Fox – la farina di mais è l’elemento base che riempie le tavole messicane sotto forma di tortillas. Le stesse tortillas che vivono le metamorfosi delle cosmogonie precolombiane: che scaldate e presentate dentro i tortilleros vanno riempite di carne per diventare tacos, che farcite di formaggio diventano quesadillas, che allargate, fritte e condite vengono servite come tlayudas, che una volta tostate si tramutano in ottime tostadas da antipasto, che ripiene di condimenti vari e avvolte nelle stesse foglie di mais divengono tamales.

Se poi la tortilla invecchia e perde la sua fragranza, la vecchia ricetta della nonna prevede che venga ridotta in triangolini, fritta, e che vada poi a costituire la base per le zuppe, per le enchiladas e per i chilaquiles che guarniti con salsa verde o rossa e pollo bollito sono la colazione più servita nei ristoranti del Distrito Federal.

E il mais non è solo il naturale compagno della cucina quotidiana ma è anche il protagonista della cucina dei giorni di festa, come simboleggia il pozole, zuppa ottenuta con il processo di nixtamalizzazione del mais, preparato con carne di maiale e avocado. Rosso, quando è carico di chile, temibile e infuocato come le vette del Popocatépetl o bianco, nella variante dello stato di Guerrero, il pozole è un piatto di derivazione azteca, nato per celebrare le vittorie sui nemici, arricchito in periodo preispanico con la carne umana delle popolazioni sottomesse durante le lunghe guerre che portarono gli aztechi a dominare incontrastati l’area mesoamericana.

Sin Maíz no hay País” continuo a polemizzare col tassista che contrariato argomenta che il mais sarà pure la struttura, ma l’inderogabile sovrastruttura è la salsa: per cui mi pontifica quasi profetico che “es la salsa que le da el toque” o mi incalza proverbialmente con “el buen taquero se ve por la salsa”. Provo a convincerlo che le sue salse non avrebbero scopo alimentare o ricreativo se non venissero accompagnate da una buona tortilla, preparata a regola d’arte dalle mani callose di una navigata tortillera, ma le mie tesi materialistiche si scontrano inesorabilmente contro l’evangelico monito “de no solo pan vive el hombre” (Mt. 4,3-4), che mi recita con l’indice ieratico a chiudere ogni mio tentativo di replica. Sconfitto e redarguito mi accontento di farmi indicare dove servono in zona un pan de maíz dulce o una torta de maíz, perché anche i dolci in questi terra sono fatti dello stesso impasto delle tortillas. Infine, gli raccomando un chiosco di elotes callejeros – pannocchie grigliate su un braciere in strada, condite con sale, limone e formaggio grattugiato che si amalgama sulla pannocchia insieme al limone e con l’immancabile chile in polvere sparso a nuvolette in chiusura di rituale provocando lo starnuto dei passanti – che avevo sgranocchiato per caso in una delle infinite stazioni dei bus che punteggiano Città del Messico. Mi ringrazia calorosamente per il suggerimento mentre si congeda alla mia destinazione, un piccolo ma caloroso ristorante chilango che proprio nella combinazione degli elementi della della trilogia divina– maíz, chile e frijoles – si è consacrato al pubblico.

Ma ricordatevi che il Messico è uno Stato Federale e guai a toccarne le individualità nazionali per cui un sonorense, orgoglioso delle tradizioni del suo Stato, metterà in discussione la supremazia indiscussa del mais tra i cereali nazionali, ricordandovi che il clima torrido di Sonora permette la fiorente produzione di grano, che elaborato in tortillas accompagna i grossi e succosi crostacei del Mar di Cortés e della Baja California. Un chiapaneco invece, fiero discendente dei Maya a cui gli Aztechi dovevano apparire come dei guerrieri incolti e barbari potrà invece dibattere del mais come di un fattore unificante del Paese. Probabilmente sosterrà la tesi che l’unità del Paese è più una costruzione amministrativa che una realtà sentita dagli abitanti di Chiapas, il cui alto tasso di povertà stride con l’opulenza dei quartieri ricchi del Distrito Federal. E i combattivi abitanti di Morelios, furiosi con lo stato centrale, discuteranno il saldo commerciale del mais, attualmente negativo (Banco de Mexico, 2015) per via della massiccia importazione dagli scomodi vicini gringos, infelice epilogo per lo Stato natale di quel concreto visionario della terra condivisa che era Emiliano Zapata.

Preso nella tenaglia degli argomenti settentrionalisti in contrasto con quelli quasi secessionisti dei meridionalisti, non resterà che pacificare gli animi svicolando la discussione sulle preferenze in tema di carne le cui infinite provenienze, cotture, preparazioni, guarnizioni appagano ogni appetito e mettono d’accordo ogni forma di governo. Certo, vegetariani astenersi ma per il loro bisogno di proteine, in una dieta in cui l’assenza di carne è simbolo di devianza, ci saranno comunque i frijoles nelle loro numerose varietà, ma si sa, parlarne non è educato e le loro imbarazzanti manifestazioni digestive mal si conciliano con l’altisonante e controverso richiamo all’unità nazionale che “Sin Maíz no hay País” implica.


Riferimenti:

Banco de Mexico (2015), Balanza de Productos Agropecuarios.

Il sapore agrodolce del Regno di Mezzo

di Michele Mastandrea

Approcciare il mondo culinario di un paese come la Cina è particolarmente difficoltoso in termini di classificazione. Non solo per il fatto che ci sono 4 grandi famiglie (una per punto cardinale) e 8 scuole ufficiali di cucina che compongono la tradizione del Regno di Mezzo (Shandong, Sichuan, Jiangsu, Guangdong, Hunan, Fujian, Anhui e Zhejiang); ma anche perché ognuna di queste scuole contiene dentro di sé innumerevoli versioni regionali e rivisitazioni del singolo chef che le porta in tavola.

Un po’ come accade in relazione al linguaggio. Dove l’idioma ufficiale, il mandarino, è accompagnato da innumerevoli dialetti regionali; ma che spesso è letteralmente trasfigurato dall’ibridazione linguistica costruita dalle furibonde migrazioni che hanno scosso il paese sin dalle politiche di Apertura a guida Deng Xiaoping. Politiche che chiusero l’era maoista del Grande Balzo in Avanti e della Rivoluzione Culturale, inaugurando l’attuale era turbocapitalista ben sintetizzata dal vecchio slogan denghista: “Arricchirsi è glorioso!”.

La cucina cinese può essere approcciata in diversi modi anche rispetto alla sua fruizione. Culturalmente, il mangiare “per fame”, tipico delle nostre latitudini, in Cina è meno importante rispetto al mangiare “per compagnia”. Mangiare è una festa collettiva; solitamente non si ordina ognuno il proprio piatto, ma l’ordine è unico, tutte le pietanze sono messe al centro del tavolo e vengono condivise tra tutti i commensali.

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Inoltre, le portate arrivano tutte già tagliate direttamente nella cucina, in modo che non ci sia alcuno sforzo o concentrazione nel sezionarle e dirigendo così l’attenzione verso la chiacchiera e la convivialità. Per questo una delle cose che vi stupirà in una tavola imbandita di un ristorante cinese è che non troverete quasi mai un coltello.

Ma oltre che dei ristoranti, la Cina è anche una delle capitali mondiali dello street food. Lasciate stare le paranoie occidentali delle malattie dovute alla scarsa igiene o dei cibi inquinati: sono tematiche presenti, ma non pensate che ci siano così tanti rischi da doversi sottomere al sacrificio di non assaggiare le meraviglie che trovate ad ogni angolo di strada delle città maggiori come di quelle piccole. E, per fare il verso a un vecchio pregiudizio, chissà cosa c’è in realtà dentro gli involtini primavera che mangiamo dalle nostre parti…

Prendete ad esempio il mercato notturno di Donghuamen, a Pechino, dove decine e decine di ristoratori armati di spiedini preparano succulenti mix di pesce, carne, verdure alla griglia, comprendendo nel menu anche scorpioni, cavallette e altri cibi eccentrici rispetto alle nostre abitudini. O alla città vecchia (Nanshi) di Shanghai, dove il mercato locale si mischia agli odori che arrivano da intere vie ricolme di apparenti bettole: nelle quali mangerete però i migliori ravioli al vapore (xiao long bai o shao-mei) della vostra vita.

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Oppure pensate alle ricchissime griglie degli uiguri, i musulmani dello Xinjiang, provincia autonoma situata a nord-ovest della Repubblica Popolare, vessata da un conflitto sempre più aspro tra l’etnia han e quella musulmana. Uno scontro sul cui fuoco soffiano sia il governo che lo utilizza a fini propagandistici e di coesione e consenso interni; sia una serie di attentati che altro non fanno se non concedere al governo la legittimità di innalzare i livelli repressivi.

Attacchi sempre più frequenti, in stile Al-Qaeda, che nel frattempo combattono anche gli embrioni, esistenti, di resistenza popolare di massa alla penetrazione economica e culturale del governo centrale. Lo street food uiguro, diffusissimo e amatissimo in tutta la Cina, è a livello sociale uno dei migliori biglietti da visita di una regione ricchissima di risorse ma plagiata dagli interessi di chi vuole metterci sopra le mani.

Tornando al filone principale, in Cina mangiare sembra quasi un’ossessione: si mangia a tutte le ore, dovunque sorgono piccoli e grandi ristoratori, mentre le varietà di snack, così come di risi, di noodles, di zuppe non si contano e soddisfano ogni tipo di gusto. Uscire a mangiare insieme è come per noi andare a bere, un momento collettivo di festa affrontato a suon di urla e baldorie. Certo, c’è chi non se lo può permettere: a decine, infatti, per le strade più affollate di esercizi alimentari, si trovano clochard che frugano nei cestini ala ricerca di qualche avanzo.

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È la dura realtà della polarizzazione sociale e del cambiamento di modello economico adottato dalla rampante Repubblica Popolare. In epoca maoista, semplificando molto, si scambiavano grandi fette della propria libertà individuale attraverso il contratto sociale della “ciotola di riso”; che significava lavoro e cibo sufficiente in cambio del consenso politico al regime. Ma attenzione, ciò valeva solo per gli abitanti delle città – e non tutte – che dovevano sostenere l’industrializzazione pesante soviet-style; nelle campagne si ricordano invece soprattutto i tempi delle grandi carestie.

Dalle riforme in poi, maggiore libertà economica ha significato invece perdere le poche certezze che si avevano in termini di welfare; con il risultato che arricchirsi è stato sì glorioso, ma non certo per tutti, visto che alcuni hanno compreso con amarezza che gli ascensori sociali del neoliberismo hanno anche fermate sottoterra. Insieme ad “Arricchirsi è glorioso!” l’altro slogan che circolava, meno famoso del primo, era infatti “Qualcuno si arricchirà prima degli altri!” Riletto oggi, suona come un oscuro presagio.

E come l’individuo cinese ormai raffronta sempre più la sua identità con quella dell’occidentale a cui si affianca ai vertici globali, anche la cultura cinese del cibo può essere letta anche a partire dalle relazioni con quelle straniere. È interessante infatti far notare che il riso e la pasta sono piatti conclusivi, non iniziali come da noi. Sono riempitivi, simboli di un passato di povertà e di stenti che ha contraddistinto la maggior parte della popolazione cinese fino a pochi decenni fa; di un piatto o di una cena, dire che “non ha reso utile il riso” significa ammetterne la bontà e soprattutto l’abbondanza.

Nella nuova Cina che aspira alla gerarchia del potere economico e politico globale invece ormai l’abbondanza sembra sempre di più diffusa tra la popolazione, come dall’altro lato sono sempre più diffuse anche le sacche di povertà che questa abbondanza non se la possono permettere. Ma questa è tutta un’altra storia, di diseguaglianze sociali e di crescita sbilanciata, e di un futuro allo stesso tempo fosco e radioso. Che talvolta le meraviglie che ogni zona di questo paese offre sembrano quasi far dimenticare.

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Fotoreportage dell’autore.

Martedì grasso, il caos a tavola

Ciò che rimane oggi del carnevale, di questa antica festa popolare, sono perlopiù cartoline, i selfies in maschera sui ponti di Venezia o le immagini delle grandi sfilate di carri in cartapesta nei carnevali di Viareggio, Cento o Putignano. Ci sono le lotterie e la loro dimensione televisiva da varietà o da avanspettacolo, con qualche rimasuglio di satira disinnescata, di quella che, per dirla con il Moretti di Aprile “non avendo padroni, sta bene sotto ogni padrone”.
Rimangono però anche i bambini e la gioia con la quale indossano i panni dei più vari personaggi storici o di fantasia. Le loro piazze, colorate dai coriandoli, nelle quali non è difficile incontrare corsari e principesse, fatine e cavalieri. E rimangono anche alcuni prodotti tipici, i dolci su tutti, e quindi ecco le chiacchiere (o bugie), le castagnole, le frìtole, le zeppole, i krapfen, e via di seguito.

Eppure il carnevale, dal latino carnem levare (“eliminare la carne”) – ad indicare il banchetto dell’ultimo giorno (il martedì grasso appunto) prima della Quaresima, con i suoi quaranta giorni di astinenza e digiuno – è una festa antica e complessa, che ha vissuto numerose trasformazioni storiche e culturali, che quasi sempre si sono svolte attorno ad una tavola imbandita.

Molto brevemente, quella che il carnevale festeggia è una transizione, il passaggio dall’inverno alla primavera e dunque a una nuova fioritura e a un nuovo raccolto: il superamento delle avverse condizioni invernali con l’esorcizzazione delle paure passate. Simbolicamente il carnevale segnava il passaggio dal regno degli inferi alla terra dei vivi. Secondo il rituale popolare, per rabbonire e al contempo onorare le anime dei defunti venivano prestati loro dei corpi provvisori: le maschere, che avevano quindi spesso un significato apotropaico, come ad esempio le maschere dei Mamuthones, che tutt’oggi sfilano nel carnevale di Mamoiada. Alla fine del carnevale, l’ordine che è stato sconvolto viene generalmente ricostituito con un rituale purificatorio culminante nei tradizionali “fuochi” con in cui viene bruciato il fantoccio del carnevale.

Dunque nella tradizione popolare il carnevale rappresentava la messinscena festosa del caos prima del ritorno all’ordine (e al lavoro nei campi), un passaggio rituale di liberazione dalle paure. L’euforia collettiva si trasformava in rovesciamento dei valori dominanti, in ribaltamento dei ruoli: il basso diventava alto e viceversa. I bambini comandavano sulla comunità, le donne sugli uomini, il buffone sostituiva il vescovo. Era la festa della maschera e del travestimento. Le stampe del Cinquecento e del Seicento hanno tramandato numerose immagini di questo mondo rovesciato: pesci volanti, lepri che nuotano, pecore che tosano il pastore.

A questa realtà si lega il tema della fame, dell’ossessione per il cibo, che dà corpo a un altro mito popolare, l’utopia del paese di Cuccagna, il paese ideale, dell’abbondanza e della felicità materiale. Già presente in Boccaccio nella novella di Calandrino, diventa dal Quattrocento in poi oggetto di frequente rappresentazione pittorica. Cuccagna è il sogno delle masse affamate che sfogano nel delirio del cibo la loro fame secolare.

La fame, il cibo ingoiato, divorato, tracannato sono temi ricorrenti nel Morgante di Luigi Pulci, dove la dilatazione del corpo (Morgante è uno dei primi giganti della storia letteraria italiana) determina un’alterazione delle normali proporzioni, che sfida beffardamente ogni visione conformista e benpensante. Morgante è forza smisurata, animalità, voracità insaziabile. È il simbolo del basso-corporeo elevato a unica fonte di piacere.

Ma è con Teofilo Folengo e soprattutto con François Rabelais che questo tema raggiunge la massima diffusione letteraria. Se Folengo apre il suo Baldus all’insegna del paese di Cuccagna, rovesciando l’idea di paesaggio arcardico, decretando la fine dei boschetti e delle acque limpide e fresche, che lasciano il posto a un paese costituito solamente di delizie culinarie, è poi nel Gargantua e Pantagruele di Rabelais che questa poetica trova il suo compimento esemplare. Come ha osservato il critico Michail Bachtin, esaltare il basso-corporeo, invertire l’alto e il basso, significa attuare un rovesciamento di valori, che trova la sua massima espressione nello spirito carnevalesco. Attraverso il riso e il gioco, Rabelais opera la liberazione gioiosa di una nuova coscienza critica, di una dissacrante e suprema libertà di pensiero.

Questo sopravvento del caos sull’ordine sociale, questo trionfo del basso, del materiale e del corporeo sui valori costituiti era particolarmente evidente nelle tradizioni del Carnevale romano rinascimentale. Antenato del moderno carnevale italiano ed erede diretto dei saturnalia – dedicati a Saturno, dio della mitica “età dell’oro” in cui gli uomini vivevano da uguali, concedevano temporaneamente agli schiavi condizioni da uomini liberi – il Carnevale romano ben incarnava questo spirito di paganesimo popolare. Qui i giorni grassi del periodo pre-quaresimale venivano suggellati consumando la più peccaminosa delle carni: il maiale.

Animale dalla simbologia articolatissima, nel Medioevo il maiale viene a caratterizzare i giorni di festa fornendo il materiale per insaccati, ciccioli, lardo e frittelle. Nello strutto di maiale venivano fritte bande di pasta dolce lievitata che richiamavano molto da vicino le frictilia dei Saturnali e che sono giunte a noi con il nome di chiacchiere, non a caso il dolce più rappresentativo del carnevale.

Durante il carnevale di Roma, infine, si consumava la cosiddetta “cuccagna del porco”, in cui il cibo veniva distribuito al popolo gettandolo dalle finestre della residenza papale di palazzo Colonna, mettendo così in scena nuovamente il livellamento carnevalesco delle gerarchie sociali, che nella capitale erano incarnate nel potere del clero. La “cuccagna del porco”, anzi, degenerava spesso in jacquerie, che si manifestava sia come vero e proprio tumulto di folla sia sublimata nell’esercizio pubblico della crudeltà nei confronti delle bestie – maiali inclusi – che venivano satiricamente crocefissi e messi a dissanguare sugli “alberi della cuccagna” prima di essere consumati.

È anzi nel protagonismo stesso del maiale durante il periodo carnevalesco che si può vedere incarnata la supremazia del popolare sull’autorità religiosa. Il significato carnevalesco del maiale costituiva infatti una riappropriazione popolare nei confronti del suo valore religioso, associato essenzialmente alla figura di Sant’Antonio abate, a sua volta, come spessissimo accade, frutto della sovrapposizione con un’usanza laica precedente. Resta il fatto che nella tradizione popolare – immortalata da Calvino in una delle indimenticabili Fiabe italiane che raccolse – Sant’Antonio diviene un ex porcaio divenuto religioso che visitando gli inferi riesce a turlupinare degli umanissimi diavoli e a sottrarre loro il fuoco per farne dono agli uomini. Una credenza medievale ascriveva inoltre al santo poteri taumaturgici, tanto che la sua protezione veniva invocata per la cura dell’herpes zoster, il “fuoco di Sant’Antonio”, che veniva infatti trattato con il lardo. Ancora oggi, d’altronde, nella tradizione abruzzese i festeggiamenti del Carnevale si intrecciano con la ricorrenza di S. Antonio. In diversi paesi dell’Italia centro-meridionale, il martedì grasso viene “anticipato” al 16 gennaio, dove viene festeggiato con i consueti eccessi, anche alimentari, suggellati dal consumo dei prodotti della lavorazione del maiale.

Altrove, invece, specialmente nell’area padana, la tradizione carnevalesca pagana si sovrappone a un’altra festività religiosa, quella di San Giuseppe, che cade il 19 di marzo. Anche qui vige l’uso di mangiare di grassa prima che inizi l’austerità quaresimale, in particolare il fritto, e anzi spostando ai giorni di Carnevale la preparazione di quei fritti che nel resto d’Italia si preparano per la ricorrenza religiosa: le zeppole o, appunto, i tortelli di S. Giuseppe.

Il vero significato del Ringraziamento

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Jennie Augusta Brownscombe, “Il primo Ringraziamento a Plymouth” (1914), olio su tela. Leida, Museo De Lakenhal.

Abbiamo ormai, è indubbio, una certa familiarità con il Giorno del Ringraziamento americano.
A pensarci bene, nella nostra mente si affastellano immagini cinematografiche di convivialità (o di comica incomprensione) familiare svolte intorno a enormi tacchini supinamente farciti.
Sulla scorta di alcune feste commercialmente comandate introdotte con successo nel corso degli ultimi anni, assistiamo oggi in Italia alla moltiplicazione delle iniziative giocose (party, brunch e quant’altro) e degli articoli di costume in occasione del Thanksgiving Day.
Basta una breve ricerca su Google per imbattersi in fantasiosi programmi di “serate a stelle e strisce” e in manuali e “istruzioni per l’uso” su come approcciarsi, gastronomicamente, musicalmente, emotivamente a questa nuova festa.

In questo senso l’Italia si dimostra particolarmente ricettiva. Un po’ perché in fondo il Thanksgiving Day americano è facilmente assimilabile – e probabilmente è proprio qui, oltre che nella celebrazione dei Padri Pellegrini o nella mitopoiesi della fondazione degli Stati Uniti d’America, che ne va ricercata l’origine – alle tradizionali Feste del Ringraziamento o alle più profane Feste del raccolto, residui, talvolta ancora vitali, di un’Italia cattolica e contadina che a loro volta affondavano le radici in un denso calendario di festività romane.
Un po’ perché le provincie dell’Impero sono inevitabilmente attratte da ciò che avviene nella Capitale. Non è questa la sede per esaurire il corposo argomento ma non è difficile scorgere nell’attenzione mediatica crescente una tappa di questo percorso.

Meno noto ma non meno interessante (e contraddittorio) è il protocollo delle celebrazioni americane per il Thanksgiving Day. Non tutti sanno che alcuni giorni prima del Giorno del Ringraziamento alla Casa Bianca si svolge la tradizionale cerimonia della grazia presidenziale a due tacchini, nota come “National Thanksgiving Turkey Presentation”. Questo rito risale al 1963 quando John Fitzgerald Kennedy decise di non cucinare il tacchino che veniva tradizionalmente donato al Presidente dalla National Turkey Federation.
Dal 1989 uno dei tacchini graziati apre la parata sulla Main Street di Disneyland, poi entrambi vengono trasferiti nel ranch di Frontierland (una delle attrazioni, a tema Western, del parco divertimenti). A partire dal 2005 il trasferimento da Washington a Disneyland (LA) avviene su un volo di prima classe della United Airlines, mentre dal 2003 i cittadini americani possono votare sul sito della Casa Bianca il nome da assegnare ai due tacchini.

L’articolo che segue è apparso per la prima volta su Unemployed Negativity, il blog del filosofo americano Jason Read. Qui l’originale.

Obama concede la grazia presidenziale al tacchino "Courage", nel 2011. © Alex Wong/Getty Images
Obama concede la grazia presidenziale al tacchino “Courage”, nel 2011. © Alex Wong/Getty Images.

Il vero significato del Ringraziamento

di Jason Read

Ogni anno, almeno da un certo momento alla metà del secolo scorso in poi, il Presidente degli Stati Uniti concede la grazia a un tacchino. La cerimonia, che potrebbe essere descritta come un esempio di kitsch sovrano, riceve copertura mediatica divenendo parte del generale pastone festivo insieme ai nuovi carri allegorici nella parata del Ringraziamento dei grandi magazzini Macy’s e ai vari “cosa fare con gli avanzi della festa”.

C’è qualcosa di così evidentemente assurdo in questo rituale che è quasi inutile sottolinearlo. C’è ovviamente la questione della colpa, di per quale crimine i tacchini vengano mai graziati, a parte la sventura di essere venuti al mondo come tacchini da allevamento. C’è però anche una simmetria tra la grazia presidenziale al tacchino e la festa in generale. Il tacchino viene risparmiato appena prima che altri milioni vengano cucinati in un massiccio consumo di un’unica specie: un simbolo idilliaco di pace tra l’uomo e la bestia appena prima dell’autentica mattanza. Il Giorno del Ringraziamento dovrebbe essere la celebrazione di una pacifica cooperazione tra i coloni e i Nativi Americani: come sappiamo tutti, questa pacifica celebrazione, se mai è esistita, ha preceduto un genocidio. Ciascun rituale mette in scena un mondo giusto che tutti sappiamo essere una menzogna.

Rimane però la questione di che cosa accada a questi tacchini dopo che vengono risparmiati. Ho trovato questa dichiarazione in The Thanksgiving Turkey Pardon, The Death of Teddy’s Bear, and the Sovereign Exception of Guantánamo [La grazia ai tacchini del Ringraziamento, la morte di Teddy’s Bear, e l’eccezione sovrana di Guantánamo] di Magnus Fiskesjö:

Di questi volatili si dice, secondo la proverbiale formuletta, che vissero per sempre felici e contenti. In realtà però essi vengono generalmente ammazzati entro un anno e rimpiazzati da dei sostituti. Ciò va avanti anno dopo anno. I volatili prescelti vengono ammazzati perché sono stati manipolati e riempiti di ormoni al punto da essere inadatti per ogni altro scopo che la loro macellazione e il loro consumo. Sono tacchini ad avanzamento veloce. Gli allevatori di tacchini presidenziali hanno spiegato che molti soccombono abbastanza presto per patologie alle articolazioni – le loro gracili articolazioni semplicemente non possono sopportare il peso dei loro corpi accresciuti artificialmente. I sopravvissuti più robusti possono avere un po’ più di un anno. Ma alla fine viene sempre posta fine alle loro sofferenze. Essi vengono quindi seppelliti in un cimitero presidenziale dei tacchini – il significato rituale del quale sarebbe da esplorare (possa essere rinvenuto dagli archeologi del futuro!).

La ragione per cui questi tacchini sono così poco adatti alla vita in libertà è che essi vengono forniti dalla National Turkey Federation. Sono prodotti di fattorie industriali, allevati per ingrassare rapidamente piuttosto che per vivere a lungo. Molto si potrebbe aggiungere riguardo al fatto che gli interessi della corporate lobby surclassino la simbologia della cerimonia, rendendo addirittura la grazia presidenziale una menzogna nella menzogna. Viene tutto così sovradeterminato, un tacchino di vuoto simbolismo con doppio ripieno di autorità sovrana e potere corporativo. Tuttavia, la mia mente rimane ancorata a quel cimitero di (quelle che immagino essere) tombe non contrassegnate dove i volatili vanno a finire, incapaci di sopportare il peso della loro presunta libertà. Sono creature progettate per la gabbia, e nessun decreto presidenziale può cambiare ciò. Sì, questa festa simboleggia la nazione.

jasonread

Jason Read è professore associato di filosofia all’Università del Southern Maine, Portland. Il suo libro, The Micro-Politics of Capital (SUNY Press 2003, ora disponibile anche in formato ebook), non ancora tradotto in italiano, è un caso editoriale.