Martedì grasso, il caos a tavola

Ciò che rimane oggi del carnevale, di questa antica festa popolare, sono perlopiù cartoline, i selfies in maschera sui ponti di Venezia o le immagini delle grandi sfilate di carri in cartapesta nei carnevali di Viareggio, Cento o Putignano. Ci sono le lotterie e la loro dimensione televisiva da varietà o da avanspettacolo, con qualche rimasuglio di satira disinnescata, di quella che, per dirla con il Moretti di Aprile “non avendo padroni, sta bene sotto ogni padrone”.
Rimangono però anche i bambini e la gioia con la quale indossano i panni dei più vari personaggi storici o di fantasia. Le loro piazze, colorate dai coriandoli, nelle quali non è difficile incontrare corsari e principesse, fatine e cavalieri. E rimangono anche alcuni prodotti tipici, i dolci su tutti, e quindi ecco le chiacchiere (o bugie), le castagnole, le frìtole, le zeppole, i krapfen, e via di seguito.

Eppure il carnevale, dal latino carnem levare (“eliminare la carne”) – ad indicare il banchetto dell’ultimo giorno (il martedì grasso appunto) prima della Quaresima, con i suoi quaranta giorni di astinenza e digiuno – è una festa antica e complessa, che ha vissuto numerose trasformazioni storiche e culturali, che quasi sempre si sono svolte attorno ad una tavola imbandita.

Molto brevemente, quella che il carnevale festeggia è una transizione, il passaggio dall’inverno alla primavera e dunque a una nuova fioritura e a un nuovo raccolto: il superamento delle avverse condizioni invernali con l’esorcizzazione delle paure passate. Simbolicamente il carnevale segnava il passaggio dal regno degli inferi alla terra dei vivi. Secondo il rituale popolare, per rabbonire e al contempo onorare le anime dei defunti venivano prestati loro dei corpi provvisori: le maschere, che avevano quindi spesso un significato apotropaico, come ad esempio le maschere dei Mamuthones, che tutt’oggi sfilano nel carnevale di Mamoiada. Alla fine del carnevale, l’ordine che è stato sconvolto viene generalmente ricostituito con un rituale purificatorio culminante nei tradizionali “fuochi” con in cui viene bruciato il fantoccio del carnevale.

Dunque nella tradizione popolare il carnevale rappresentava la messinscena festosa del caos prima del ritorno all’ordine (e al lavoro nei campi), un passaggio rituale di liberazione dalle paure. L’euforia collettiva si trasformava in rovesciamento dei valori dominanti, in ribaltamento dei ruoli: il basso diventava alto e viceversa. I bambini comandavano sulla comunità, le donne sugli uomini, il buffone sostituiva il vescovo. Era la festa della maschera e del travestimento. Le stampe del Cinquecento e del Seicento hanno tramandato numerose immagini di questo mondo rovesciato: pesci volanti, lepri che nuotano, pecore che tosano il pastore.

A questa realtà si lega il tema della fame, dell’ossessione per il cibo, che dà corpo a un altro mito popolare, l’utopia del paese di Cuccagna, il paese ideale, dell’abbondanza e della felicità materiale. Già presente in Boccaccio nella novella di Calandrino, diventa dal Quattrocento in poi oggetto di frequente rappresentazione pittorica. Cuccagna è il sogno delle masse affamate che sfogano nel delirio del cibo la loro fame secolare.

La fame, il cibo ingoiato, divorato, tracannato sono temi ricorrenti nel Morgante di Luigi Pulci, dove la dilatazione del corpo (Morgante è uno dei primi giganti della storia letteraria italiana) determina un’alterazione delle normali proporzioni, che sfida beffardamente ogni visione conformista e benpensante. Morgante è forza smisurata, animalità, voracità insaziabile. È il simbolo del basso-corporeo elevato a unica fonte di piacere.

Ma è con Teofilo Folengo e soprattutto con François Rabelais che questo tema raggiunge la massima diffusione letteraria. Se Folengo apre il suo Baldus all’insegna del paese di Cuccagna, rovesciando l’idea di paesaggio arcardico, decretando la fine dei boschetti e delle acque limpide e fresche, che lasciano il posto a un paese costituito solamente di delizie culinarie, è poi nel Gargantua e Pantagruele di Rabelais che questa poetica trova il suo compimento esemplare. Come ha osservato il critico Michail Bachtin, esaltare il basso-corporeo, invertire l’alto e il basso, significa attuare un rovesciamento di valori, che trova la sua massima espressione nello spirito carnevalesco. Attraverso il riso e il gioco, Rabelais opera la liberazione gioiosa di una nuova coscienza critica, di una dissacrante e suprema libertà di pensiero.

Questo sopravvento del caos sull’ordine sociale, questo trionfo del basso, del materiale e del corporeo sui valori costituiti era particolarmente evidente nelle tradizioni del Carnevale romano rinascimentale. Antenato del moderno carnevale italiano ed erede diretto dei saturnalia – dedicati a Saturno, dio della mitica “età dell’oro” in cui gli uomini vivevano da uguali, concedevano temporaneamente agli schiavi condizioni da uomini liberi – il Carnevale romano ben incarnava questo spirito di paganesimo popolare. Qui i giorni grassi del periodo pre-quaresimale venivano suggellati consumando la più peccaminosa delle carni: il maiale.

Animale dalla simbologia articolatissima, nel Medioevo il maiale viene a caratterizzare i giorni di festa fornendo il materiale per insaccati, ciccioli, lardo e frittelle. Nello strutto di maiale venivano fritte bande di pasta dolce lievitata che richiamavano molto da vicino le frictilia dei Saturnali e che sono giunte a noi con il nome di chiacchiere, non a caso il dolce più rappresentativo del carnevale.

Durante il carnevale di Roma, infine, si consumava la cosiddetta “cuccagna del porco”, in cui il cibo veniva distribuito al popolo gettandolo dalle finestre della residenza papale di palazzo Colonna, mettendo così in scena nuovamente il livellamento carnevalesco delle gerarchie sociali, che nella capitale erano incarnate nel potere del clero. La “cuccagna del porco”, anzi, degenerava spesso in jacquerie, che si manifestava sia come vero e proprio tumulto di folla sia sublimata nell’esercizio pubblico della crudeltà nei confronti delle bestie – maiali inclusi – che venivano satiricamente crocefissi e messi a dissanguare sugli “alberi della cuccagna” prima di essere consumati.

È anzi nel protagonismo stesso del maiale durante il periodo carnevalesco che si può vedere incarnata la supremazia del popolare sull’autorità religiosa. Il significato carnevalesco del maiale costituiva infatti una riappropriazione popolare nei confronti del suo valore religioso, associato essenzialmente alla figura di Sant’Antonio abate, a sua volta, come spessissimo accade, frutto della sovrapposizione con un’usanza laica precedente. Resta il fatto che nella tradizione popolare – immortalata da Calvino in una delle indimenticabili Fiabe italiane che raccolse – Sant’Antonio diviene un ex porcaio divenuto religioso che visitando gli inferi riesce a turlupinare degli umanissimi diavoli e a sottrarre loro il fuoco per farne dono agli uomini. Una credenza medievale ascriveva inoltre al santo poteri taumaturgici, tanto che la sua protezione veniva invocata per la cura dell’herpes zoster, il “fuoco di Sant’Antonio”, che veniva infatti trattato con il lardo. Ancora oggi, d’altronde, nella tradizione abruzzese i festeggiamenti del Carnevale si intrecciano con la ricorrenza di S. Antonio. In diversi paesi dell’Italia centro-meridionale, il martedì grasso viene “anticipato” al 16 gennaio, dove viene festeggiato con i consueti eccessi, anche alimentari, suggellati dal consumo dei prodotti della lavorazione del maiale.

Altrove, invece, specialmente nell’area padana, la tradizione carnevalesca pagana si sovrappone a un’altra festività religiosa, quella di San Giuseppe, che cade il 19 di marzo. Anche qui vige l’uso di mangiare di grassa prima che inizi l’austerità quaresimale, in particolare il fritto, e anzi spostando ai giorni di Carnevale la preparazione di quei fritti che nel resto d’Italia si preparano per la ricorrenza religiosa: le zeppole o, appunto, i tortelli di S. Giuseppe.

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