L’osteria e la metropoli. La prima tavola delle Brigate Rosse

Incontriamo Loris Tonino Paroli nel ristorante da Gianni, a un tavolo dell’ampia sala da pranzo vicino al camino acceso in maiolica verde. Sulla parete opposta, il poster di una mostra di dipinti ad olio dello stesso Loris, le cui giornate oscillano oggi “tra l’orto e l’arte”, come ama ricordare, ma che per sedici lunghi anni si sono svolte nelle patrie galere dove scontava la sua militanza nelle Brigate Rosse. Militanza conclusasi nel 1975, quando venne arrestato e incriminato per costituzione di banda armata, associazione sovversiva e per aver partecipato alla liberazione di Renato Curcio in un assalto al carcere di Casale Monferrato guidato da Mara Cagol, che verrà uccisa pochi mesi dopo a seguito di uno scontro a fuoco con i carabinieri.

La sala principale è illuminata quasi esclusivamente dalla luce del sole pomeridiano che filtra dalla veranda, da dove ogni tanto si sente un gallo cantare dal pollaio retrostante. Paroli spiega che una credenza dei contadini locali vuole che il canto del gallo fuori orario sia presagio del tempo che sta per cambiare. Siamo a Paullo, località di Costaferrata, a 650 metri sul livello del mare e appena sopra la strada provinciale che da Reggio Emilia conduce all’Appennino. È qui che nel 1964 Gianni Incerti aprì il ristorante che porta il suo nome e che ancora oggi è gestito dalla moglie Anna e dai due figli Elvio e Robby. È proprio la signora Anna ad accoglierci spiegando premurosa che le luci interne della sala sono tenute volutamente basse per tenere le mosche lontane dal prosciutto che accompagna lo gnocco fritto.

Anna Incerti e Loris Paroli sono cugini. Anzi, come tengono a precisare, “cugini due volte”, da parte di madre e da parte di padre, in un complesso rapporto di parentela che sa di storie familiari che si perdono indietro negli anni. Per un curioso accidente della storia, proprio questa consanguineità è alla base di quello che divenne noto come “convegno di Pecorile”, l’atto di battesimo delle Brigate Rosse. Il borgo di Pecorile si trova in realtà diversi chilometri più sopra, ma negli anni sessanta era l’unico segnalato da un cartello stradale e così venne identificato retrospettivamente come il luogo di nascita della lotta armata in Italia: una delle tante e in fondo la minore delle inesattezze storiche che punteggiano le ricostruzioni della storia delle BR. A dare i natali all’organizzazione parrebbe invece essere stata proprio Costaferrata, e in particolare la sala del ristorante da Gianni.

Siamo nell’estate del 1970, appena dopo l’autunno caldo del ’69 e un inverno reso ancora più rovente dal tritolo detonato a Piazza Fontana. A seguito di quegli eventi e con l’esperienza dei gruppi extraparlamentari destinata a una svolta, i militanti che allora si raccoglievano dietro la sigla Sinistra Proletaria si trovarono di fronte alla necessità di riunirsi per discutere la propria strategia politica per il futuro. La scelta del luogo del convegno cadde sul ristorante da Gianni, ma per ragioni esclusivamente logistiche, spiega Paroli. Reggio Emilia poteva servire da punto intermedio tra il Nord Italia e Roma e, longitudinalmente, era pressoché equidistante tra i compagni genovesi, i Collettivi Politici Metropolitani di Milano e Torino e il gruppo di Renato Curcio e Mara Cagol proveniente dalla Facoltà di Sociologia di Trento. Proprio a Reggio, d’altronde, in un pied-à-terre sulla principale via Emilia aveva base il gruppo detto appunto “dell’appartamento”, di cui facevano parte i futuri brigatisti Prospero Gallinari, Alberto Franceschini e lo stesso Paroli. Fu quest’ultimo, nel luglio del 1970, a suggerire la locanda della cugina come luogo di riunione per accogliere le decine di giovani extraparlamentari radunatesi nel reggiano.

Oggi, nei locali del piano superiore della locanda non alloggiano più clienti ma i salami in stagionatura che vengono serviti con l’antipasto insieme al pecorino dell’Appennino. Ma anche in quei giorni ormai lontani il quasi centinaio di militanti convenuti dovette cercare ricovero presso le abitazioni locali per trovare ospitalità per la notte. Durante le discussioni diurne nella sala da pranzo del ristorante, invece, si delinearono secondo Paroli tre linee politiche che avrebbero contrassegnato l’estrema sinistra italiana negli anni successivi: chi si spostò verso l’area dell’autonomia, chi abbracciò la “superclandestinità”, e chi appoggiò invece la linea della “propaganda armata” e dell’“attività politico-militare”, sancendo di fatto la nascita delle BR.

La scelta della lotta armata e della clandestinità sarebbe maturata solo successivamente, come pure la sigla “Brigate Rosse” che alcuni attribuiscono a Mara Cagol, la quale avrebbe mutuato il nome della Rote Armee Fraktion tedesca, adattando l’impegnativo “Frazione Armata Rossa” nel più confacente “Brigata Rossa”. Altri, come Alberto Franceschini, fanno però nascere il celebre simbolo della stella cerchiata proprio sui tavoli del ristorante da Gianni. L’ispirazione sarebbe venuta dalla stella a cinque punte dei Tupamaros che in quegli stessi anni praticavano la propaganda armata in Uruguay; riprodotta a mano, la stella ne uscì deformata, con le due punte inferiori allungate, e qualcun altro ebbe l’idea di cerchiarla usando una moneta da 100 lire. La leggenda vuole anzi che le prime prove siano state incise a lama sulle panche dell’osteria, e che lì sarebbero rimaste per richiesta della questura se il signor Gianni, il titolare, estraneo alle vicende delle BR, non le avesse pragmaticamente utilizzate per compiere dei lavori di ristrutturazione.

Vincenzo Tessandori della Stampa una volta ha provato a ricostruire in cosa consistesse il pranzo di quei pochi giorni d’estate del 1970, con l’aiuto di un Paroli fresco della libertà appena riguadagnata. Salame nostrano e salsicce, prosciutto crudo e ciccioli come antipasto, aperto dal coro di Bella ciao. Seguirono i cappelletti in brodo e i tortelli di bietole, ma anche lasagne e cannelloni. E ancora arrosti misti, coniglio, faraona e agnello accompagnati da patate e insalata. Tutto per la modica cifra di quattromila lire. Un menu a dir poco corposo, che poteva servire a ristorare dopo estenuanti discussioni politiche ed escursioni preappenniniche, ma che con poche variazioni somiglia alla cucina tradizionale che da Gianni ripropone ancora oggi.

Quando Loris Tonino Paroli ci raggiunge al tavolo, abbiamo già abbondantemente consumato erbazzone e polenta fritta, oltre a una generosa porzione di tortelli con quattro ripieni diversi che Elvio ci ha servito in tavola direttamente con la padella, ma la signora Anna ci sta ancora chiedendo premurosa “cosa mangiamo volentieri”. Paroli si unisce in tempo per un brindisi con un bicchiere di lambrusco, prima del caffè che decidiamo di bere direttamente al bancone dietro cui si fronteggiano il ritratto del Che e quello di Marilyn. Di fronte, un tavolino su cui sono dispiegate l’edizione del giorno del Manifesto, della nuova Unità renziana, e la pagina sportiva della Gazzetta di Reggio. Anni fa c’era anche un ritratto giovanile della signora Anna, che il figlio Elvio giura assomigliasse in modo impressionante ad Anna Magnani, ma la diretta interessata lo fece rimuovere per riservatezza di fronte alla curiosità degli avventori. Immagini che sintetizzano bene l’atmosfera genuina del locale. Anche in quell’estate del 1970 nessuno poteva essere a conoscenza del futuro dispiegarsi degli eventi storici, né i diretti interessati, né tantomeno i coniugi Incerti che gestivano la trattoria, e neppure i carabinieri del posto, che dopo un controllo di routine non trovarono motivi per proseguire con ulteriori indagini.

D’altronde, voler forzare l’intera matrice politico-culturale delle Brigate Rosse nelle maglie esclusive di un contesto rurale fatto di tradizioni contadine e gloriose appartenenze politiche significa perderne tutta la complessità, fatta anche e soprattutto di fabbrica, metropoli e lotte operaie. Non solo i compagni della Pirelli, della Sit-Siemens, dell’Alfa, della Marelli e dell’IBM di Milano; anche Franceschini e lo stesso Paroli avevano conosciuto il padronato industriale reggiano, alle Officine Meccaniche Reggiane il primo, come tecnico rettificatore alla Lombardini Motori il secondo. Operaio alle Reggiane, del resto, era stato anche il padre di Anna, scendendo in bici fino ai cancelli dello stabilimento per fare ritorno in altura a fine turno. Persino Prospero Gallinari, che a lavorare nei campi ci era andato all’età di dodici anni, ha intitolato la sua autobiografia Un contadino nella metropoli, a sottolineare come l’esperienza armata sia stata legata alle lotte nel capitalismo avanzato più che a nostalgie resistenziali.

Dopo pranzo, Loris ci conduce in una passeggiata in quella che definisce con una punta di orgoglio il “suo” monte, un appezzamento sui calanchi appena sopra la provinciale ricevuto in eredità da uno zio. Di lì, tra il rosmarino e le sculture che il proprietario vi ha installato negli anni, si domina la vallata sottostante e il prospiciente castello dell’imperatrice Matilde di Canossa, memoria di fasti antichi quando, quasi mille anni prima del “convegno di Pecorile”, la zona era stata al centro delle vicende politiche di mezza Europa.

È qui che tornano in mente le divagazioni immaginifiche di Robby, il figlio minore di Gianni e Anna, che si definisce “pellerossa nell’anima” e che difatti porta i capelli coerentemente legati in due trecce alla maniera dei navajo. Nell’accoglierci all’ingresso da Gianni, ci parla del torrente Crostolo che scorre sotto Costaferrata e della simbologia dell’acqua generatrice di vita, ma anche della “pietra magica” di Bismantova, piccola vetta del vicino Appennino e luogo di culto già dal neolitico.

È lui ad offrirci involontariamente una suggestiva chiave di lettura complessiva della vicenda, prima di ritirarsi per riportare all’ordine una nidiata di recalcitranti gattini appena nati: “la gente di qua ama nascondersi”, sentenzia alludendo ai dualismi che da sempre accompagnano la storia politica locale. Poco più su, racconta, ad Albinea, aveva sede il comando tedesco preposto al controllo della Linea Gotica, ma nella stessa area operavano anche la 26a e la 145a Brigata Garibaldi, che sotto il comando alleato sferrarono un pesante attacco ai nazisti nella primavera del ’45. L’anno precedente, nella notte di San Giovanni, altri tre partigiani della 26a erano caduti in uno scontro a fuoco con i tedeschi in seguito a un attentato fallito. La rappresaglia tedesca si abbatté a colpi di mitra sugli ospiti della vicina locanda, che venne data alle fiamme in quello che sarà ricordato come l’“eccidio di Bettola”. Era solo la prima osteria del posto destinata a diventare teatro della Storia.

Cucina tedesca all’ombra del muro

Circa un centinaio di chilometri a sud-est di Berlino, prima che il fiume Sprea attraversi la capitale per poi confluire nello Havel, sorge il famoso Spreewald, il parco di 300 ettari che la combinazione di corsi d’acqua naturali e canali artificiali ha reso una meta ambita per turisti e sportivi (soprattutto ciclisti e canoisti), e che con la riunificazione della Germania è stato proclamato riserva della biosfera dall’UNESCO. Qui, la bassa altitudine, l’umidità e la fertilità del terreno hanno permesso il fiorire delle coltivazioni di rafano e, soprattutto, di cetrioli, da sempre tra i prodotti più rappresentativi del patrimonio gastronomico tedesco. Proprio su questi ultimi, anzi, si è combattuta negli anni ‘90 la “guerra del cetriolo” tra lo Spreewald e i suoi concorrenti (l’area bavarese, ma anche il territorio intorno ad Amburgo) per ottenere la protezione dell’indicazione geografica del prodotto, conferita dall’Unione Europea con l’unità.

Negli anni della Repubblica Democratica Tedesca, i cetrioli dello Spreewald in barattolo (aromatizzati con basilico, melissa e foglie di vite, di ciliegio o di noce) erano diventati bene di consumo quotidiano, tanto che nella commedia cult Good By,e Lenin! rappresentavano il simbolo dello smantellamento della pianificazione industriale socialista a favore dell’apertura al mercato internazionale: divenuti introvabili dopo l’unità, erano stati sostituiti, assieme al caffè Mocca Fix, ai cracker Fillinchen e ai legumi secchi Tempo, da più appetibili surrogati occidentali.

In realtà, i cetrioli erano sufficientemente radicati nella cultura alimentare tedesco-orientale da riuscire a sopravvivere alla varietà e all’offerta portata dalla riunificazione economica e dall’apertura all’occidente. Ma altri prodotti, come la leggendaria Vita-Cola – la mitica cola dell’est, amara e dal sentore di limone, introdotta negli anni ’50 con un piano quinquennale volto a promuovere i soft drink nel tentativo di arginare la piaga sociale dell’alcolismo – non hanno retto al crollo dei socialismi reali e hanno inevitabilmente perso una battaglia dall’esito già scritto, quella della competizione commerciale con le multinazionali della metà capitalistica del mondo. Qualche avvisaglia di cedimento alle sirene del libero mercato, in realtà, si era già avuta negli anni ’60 con la commercializzazione della Club Cola, più dolce e aromatica, introdotta proprio per emulare il gusto della Coca-Cola. Ma dato che, come insegna il padre teorico del socialismo moderno, la storia si ripete due volte, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, le vecchie cole dell’est sono tornate in produzione in anni recenti, stavolta non più per effetto della pianificazione economica dal governo centrale quanto piuttosto per via di una rinata domanda commerciale che ha portato imprese private a rilevare le ricette originali.

Questo piccolo e in sostanza insignificante fenomeno di costume può essere ricondotto al più generale fenomeno divenuto noto con il nome Ostalgie (crasi tra Ost, est, e Nostalgie), concetto-ombrello che designa tanto la riappropriazione ironica e post-ideologica della simbologia veterocomunista da parte di chi è cresciuto nella Germania unificata e non ha ricordi della vita a est del muro, quanto una vera e propria nostalgia che molti ex-Ossi (tedeschi orientali) dichiarano di provare nei confronti per il sistema sociale della Germania democratica  dove nel bene o nel male disoccupazione e indigenza familiare erano a livelli minimi –, ma anche per una certa sensazione di comunità e di coesione che si respirava in un’epoca di disparità salariale inesistente e bassa competizione sociale.

Se l’industria agroalimentare della DDR è inevitabilmente crollata con il muro di Berlino insieme al sistema statale socialista, non è avvenuto lo stesso per una storica casa editrice di Lipsia, il Verlag für die Frau, letteralmente “casa editrice per la donna”, che come le altre aziende sopravvissute al crollo del muro è passata da nazionalizzata a privata. In origine dedicata principalmente alla moda e a quella che nelle nostre scuole si chiamava economia domestica (non senza qualche contraddizione con le promesse socialiste di emancipazione femminile), Verlag für die Frau pubblicava anche la più classica raccolta di ricette dell’Est, Unser großes Kochbuch, “Il nostro grande libro di cucina” (notare l’orgogliosa enfasi identitaria sul possessivo), al cui successo ha fatto seguito anche il corposo manuale Kochen, “Cucinare”, entrambi ristampati a tutt’oggi.

Furono pubblicazioni di questo tipo, insieme alle popolarissime trasmissioni televisive a tema culinario condotte dai cuochi Kurt Dummer e Rudolf Kroboth con uno straordinario anticipo di qualche decennio sulle mode degli ultimi anni, a contribuire alla creazione di una identità gastronomica in una terra tendenzialmente povera di materie prime come quella che rientrava nei confini della DDR. La base della cucina nazionale era costituita principalmente dal pesce proveniente dagli sbocchi sul Baltico a nord: tipiche le insalate di spratti, sorta di sardina baltica. Ma la parte del leone la faceva sicuramente la cucina tradizionale della Turingia, da sempre zona di agricoltura e allevamento intensivi e dunque a discreta disponibilità di carne e vegetali. Accanto ai tipici canederli di patate della cucina est-europea e alle immancabili Wurst, dunque, figuravano anche i Kochklopse, polpette bollite e servite in una salsa a base di fondo di cottura e capperi.

I piatti di carne, in effetti, e soprattutto di maiale, abbondavano sulle tavole dell’est, mentre scarseggiavano frutta e verdura, che erano, come le ha descritte la giornalista Jutta Voigt, “nemici di classe”, che “sabotavano per quanto potevano l’edificazione del socialismo”. Tra queste, la massima espressione del lusso borghese era ovviamente la frutta esotica, e in particolare le banane. Quando il muro venne definitivamente abbattuto e ondate di tedeschi orientali si riversarono all’Ovest, le scorte di banane nei supermercati federali andarono rapidamente esaurite, grazie ai 100 marchi cosiddetti “di benvenuto” che la Germania Ovest assegnava ai profughi della DDR già dall’anno prima, salvo poi sospendere la pratica a fronte della quantità inesaudibile di richieste. Anche l’euforia liberatoria per la “rivoluzione delle banane”, insomma, era destinata a vita breve.

La punta di diamante dell’allevamento della DDR era comunque il pollame, e in particolare il broiler, varietà di pollo rinomata per le sue carni abbondanti che lo rendevano indicatissimo per l’arrostitura. Il broiler divenne un elemento distintivo della cucina tedesco-orientale grazie, ancora una volta, allo chef televisivo e funzionario del partito Kurt Drummer. Ma ciò non avvenne che all’inizio degli anni ’60, dopo che il COMECON, l’organizzazione economica del Patto di Varsavia, chiuse le importazioni di carne da occidente: fu solo allora, infatti, che i tedeschi dell’Est dovettero ricorrere forzatamente a razze autoctone del blocco orientale. L’evento finì per fare la fortuna della piccola cittadina bulgara di Dobrič, all’epoca chiamata Tolbuchin in onore del maresciallo sovietico ed eroe di Stalingrado che la conquistò durante la Seconda Guerra Mondiale: fu principalmente qui che le importazioni si rivolsero, attirate dalla notizia che, con sforzi degni dell’Ordine di Lenin, l’allevamento locale riusciva a tirare su polli che arrivavano a pesare fino a 1,5 kg in meno di dieci settimane: i broiler appunto.

Le influenze sovietiche, in effetti, hanno lasciato una traccia profondissima nella cucina della Germania Est, e non solo dal punto di vista commerciale. Nei manuali di cucina della DDR un posto di rilievo lo occupa la Soljanka, una zuppa agrodolce di carne di origine ungherese, la cui preparazione, come ogni zuppa della tradizione, ha decine di varianti, ma che nella versione canonica tedesca prevede spezzatino di carne di maiale e di Wurst, pomodoro, peperoni, paprika e panna acida.

Le note agrodolci della cultura est-tedesca si estendevano, metaforicamente, anche al dolce. Se nella cucina domestica prevalevano i dolci da forno, nel 1952 un caffè di Pankow inventò invece una particolare coppa gelato per celebrare la sconfitta della nazionale di hockey dei rivali dell’ovest alle olimpiadi invernali di Oslo dello stesso anno. Dopo essere stata battuta nell’ordine da Canada, Stati Uniti e Cecoslovacchia, la Germania Ovest fu sconfitta definitivamente in casa dalla Svezia per 7 – 3. In onore di questa partita memorabile, la coppa di gelato alla vaniglia accompagnata da composta di mele e liquore allo zabaione e servita con panna e scaglie di cioccolato venne chiamata Schwedenbecher, “coppa di Svezia”. Schadenfreude in purezza.

Quella della DDR fu dunque una cucina che rifletteva fortemente le condizioni sociali e il clima politico del tempo. Persino lo street food più comune aveva un che di nazionalistico, almeno nel nome: gli hot dog erano ribattezzati Ketwurst, gli hamburger Grilletta, mentre il Toast-Hawaii con prosciutto e ananas introdotto in Germania dalle truppe americane veniva chiamato Karlsbader Schnitte o più familiarmente Karli al di là del muro. Nemmeno l’internazionalissima pizza si sottraeva alla riappropriazione culturale, condita con carne o sottaceti e ribattezzata Krusta. Non c’è da stupirsi allora che se polacchi e ungheresi continuavano negli anni ‘90 a mangiare sostanzialmente gli stessi piatti che preparavano sotto il patto di Varsavia, la cucina della DDR, complice l’occidentalizzazione spinta, contiene ricette e prodotti che in sostanza parlano interamente di un’altra epoca, inevitabilmente e irrimediabilmente sepolti con essa sotto le macerie del muro di Berlino.

La storia rivoluzionaria delle patate

Che l’aspetto materiale della vita umana sia motore della storia delle civiltà non è un’acquisizione di ieri. È nota infatti la massima di Karl Marx secondo cui “per poter ‘fare storia’ gli uomini devono essere in grado di vivere, ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere”.

Sulla scorta di considerazioni di questo tipo, e seguendo la massima di Feuerbach secondo cui “l’uomo è ciò che mangia”, il grande storico francese Fernand Braudel ha prestato grande attenzione a quelle che con un’espressione del geografo Maximilien Sorre ha definito “piante di civiltà”. Piante, cioè, in grado di influenzare così in profondità la vita quotidiana degli individui da essere loro stesse gli artefici della loro evoluzione sociale. Tra queste, la parte del leone la fanno ovviamente i cereali; grano e riso, in primis, tradizionalmente simboli della cultura materiale rispettivamente europea e orientale.

Ma sarebbe inappropriato concentrarsi su questi ultimi a scapito di quelle piante coltivate nel Nuovo Mondo che, sia pure lentamente e con difficoltà, sono penetrate nel vecchio. Tra queste, una storia che merita di essere raccontata l’hanno avuta le patate. Originaria dell’America andina, la patata fu scoperta in Perù dai conquistadores spagnoli che la introdussero in Europa verso la fine del XVI secolo. Qui fu essenzialmente snobbata per più di un secolo, salvo poi lentamente affermarsi come sostituto del pane, essendo, in quanto tubero sotterraneo, meno soggetta rispetto al grano alla distruzione da parte degli eserciti che attraversavano i campi di mezzo continente all’epoca delle guerre di successione.

Ricca di amidi e molto nutriente, la patata veniva consumata anche previa essiccazione, il che ne permetteva la conservazione per lunghi periodi. A differenza di gran parte dei cereali, poi, aveva il non trascurabile vantaggio di non richiedere l’utilizzo di macchinari per la decorticazione e, da che l’aratro aveva sostituito la zappa, poteva essere coltivata in maniera altrettanto efficiente del grano. Fu così che la patata affiancò il pane come alimento base dei contadini europei nell’età moderna. L’economista tedesco Wilhelm Roscher si è spinto anzi fino ad affermare che è nella patata che bisogna individuare la causa del boom demografico europeo di quegli anni.

Ma è in Gran Bretagna più che altrove che si può guardare alla patata come campione della storia del capitalismo moderno. All’epoca della rivoluzione industriale, infatti, la patata divenne alimento fondamentale per i lavoratori delle nascenti fabbriche a carbone, i quali potevano avvalersi di un prodotto naturale che fosse allo stesso tempo economico e coltivabile nei piccoli appezzamenti dei quartieri urbani nei quali sorgevano le manifatture e dove la disponibilità di campi aperti era quantomai scarsa. È a questo proposito che Friedrich Engels, acuto osservatore delle condizioni di vita della classe operaia inglese, ebbe a dire che la patata primeggiava col ferro per il suo “ruolo storicamente rivoluzionario”, ossia per aver permesso al capitalismo industriale di affermarsi definitivamente sul sistema economico fondiario.

Pochi anni dopo, fu il suo sodale Karl Marx a fare esperienza della miseria della vita urbana quando, dopo essere stato espulso dalla Francia per il suo ruolo di agitatore durante i moti del 1848, riparò a Londra. Qui, rimandando continuamente la pubblicazione del Capitale, la sua opera principale, è costretto a vivere dei suoi proventi di pubblicista e dei sussidi inviatigli da Engels. Vive in estrema povertà a Soho, oggi nel cuore della Londra posh ma all’epoca uno dei quartieri peggiori della città, in un misero edificio che adesso ospita un ristorante di lusso ma in cui Marx perse due figli per malnutrizione e uno per la tubercolosi. In una lettera del 1861, Karl scrive all’amico Engels: “Da otto o dieci giorni ho nutrito la famiglia con pane e patate, ed è anche dubbio che io riesca a scovarne oggi… Come debbo fare a farla finita con tutta questa merda del diavolo?”

La patata, dunque, come simbolo delle indigenti condizioni di vita del sottoproletariato urbano. Ma contro la lineare visione della storia di Engels, la patata ebbe un ruolo cruciale anche per il proletariato rurale irlandese. L’alta resa dei tuberi a fronte di una quantità limitata di terreno ne aveva causato la diffusione tra i braccianti senza terra. Un acro di terra coltivata a patate e il latte di una mucca bastavano infatti a sfamare decentemente una famiglia media irlandese, e in breve tempo la patata divenne l’unico mezzo di sussistenza possibile per le famiglie contadine, tanto che nel suo La ricchezza delle nazioni il grande economista scozzese Adam Smith la raccomandava ai britannici per l’alta resa e per l’alto potere nutritivo che aveva dimostrato agli irlandesi.

Come spesso accade agli economisti di professione, tuttavia, Smith non riuscì a prevedere l’arrivo di una crisi economica, sottovalutando i potenziali difetti di una monocoltura così intensiva e diffusa. A metà del XIX secolo, infatti, una terribile epidemia di peronospora – una malattia della patata che espone i tuberi agli attacchi di funghi e batteri trasformandoli in una poltiglia marcescente – devastò le coltivazioni di tutta l’Irlanda, provocando oltre un milione di morti tra carestia e malattie correlate e provocando la famosa ondata migratoria verso gli Stati Uniti. Quella che divenne nota come “Great Famine” (“grande carestia”, in irlandese “an Gorta Mór”) fu indiscutibilmente uno degli eventi più importanti e drammatici della storia dell’isola, divenendo parte integrante dell’immaginario popolare: la ballata folk The Fields of Athenry, ambientata ai tempi della carestia, è cantata ancora oggi come inno dai tifosi del Celtic F.C., la squadra degli immigrati irlandesi di Glasgow.

La carestia ebbe però il merito di aprire gli occhi a molti irlandesi sulla disparità tra le proprie condizioni e quelle dei britannici. La maggior parte dei latifondisti dell’isola era infatti di origine inglese, e ciò in un’epoca in cui l’Impero britannico era all’apice della sua ricchezza – ricchezza cui l’Irlanda sembrava non partecipare. Questa questione sociale assunse un carattere propriamente politico allorquando, ai primi allarmi sollevati riguardo il diffondersi della carestia, l’amministrazione britannica ne sottovalutò (o ne volle sottovalutare) i rischi, con effetti ovviamente disastrosi. Alcuni intellettuali irlandesi cominciarono allora una polemica contro il sistema di proprietà e di tassazione imposto dal governo inglese, sintetizzata nello slogan: “L’Onnipotente ha mandato la peronospora, ma gli inglesi hanno creato la carestia”.

I più radicali tra loro, radunatisi nel movimento “Giovane Irlanda”, scelsero l’insurrezione armata come mezzo di opposizione all’azione (o inazione) politica della corona, inserendosi nel quadro generale dei moti che sconvolsero l’Europa nel 1848, salvo essere definitivamente catturati e condannati a seguito di un fallito assalto ad un convoglio di polizia.

La peronospora scomparve con la seconda metà del XIX, ma con essa non si interruppe l’opposizione irlandese all’Unione. Né tanto meno si interruppe il legame storico tra patate e lotte contadine. Ce lo ricorda, ad esempio, una bella testimonianza di Giuseppina “Pucci” Saija, moglie di Raniero Panzieri, il sociologo che assieme a Mario Tronti, Toni Negri e gli altri intellettuali del gruppo dei Quaderni Rossi intravide e anticipò il sorgere del Sessantotto e dell’autunno caldo. All’inizio degli anni ’50, Panzieri era un giovane professore di filosofia del diritto dell’Università di Messina che, come ha ricordato un suo studente, “la mattina alle quattro occupava le terre e alle dieci entrava in aula ad insegnare”. Della sua attività politica in quel periodo, Pietro Nenni, all’epoca segretario del PSI, ebbe a dire: “Sono rimasto commosso nell’avvicinare in Sicilia i contadini delle città in cui si sono svolte le lotte, sentirmi ripetere il nome di questo giovane professore universitario sempre alla testa dei cortei e il primo a sfidare il fuoco della polizia. Ecco come si concilia la cultura con le lotte dei lavoratori”.

Al ricordo di questo periodo di militanza politica, la moglie di Panzieri ha legato soprattutto quello dei pasti consumati insieme agli altri “compagni” siciliani. Pasti necessariamente frugali e, neanche a dirlo, a base di patate:

“Devo dire che gli anni della Sicilia sono stati i più belli perché c’era una forza, un entusiasmo tra i compagni; ogni tanto Raniero telefonava alla padrona di casa e mi faceva chiamare e mi diceva: «Senti, prepara qualcosa da mangiare perché Mimmo e Nando [due studenti di Panzieri, ndr] non hanno un soldo in tasca e non possono neanche mangiare». Era proprio così. E allora io se avevo della pasta facevo della pasta, se avevo soltanto patate facevo un pentolone di patate bollite, compravo un panetto di burro e davo loro patate schiacciate con il burro, alla piemontese. Sai che sia Mimmo che Nando mi hanno detto la stessa cosa e cioè che hanno mantenuto questa abitudine di mangiare le patate bollite con il burro. Il ricordo della Sicilia, di questi compagni, dei sacrifici che facevano, dell’entusiasmo che avevano, la voglia di fare, non si stancavano mai, non mi abbandona. E capisci perché penso a quel periodo come a un periodo meraviglioso.”

An interview with Yotam Ottolenghi

Yotam Ottolenghi inside his restaurant. Photo by Keiko Oikawa.
Yotam Ottolenghi inside his restaurant. Photo by Keiko Oikawa.

Roast potatoes and Jerusalem artichokes with lemon and sage. Camargue red rice and quinoa with orange and pistachios. Roasted aubergine with saffron yoghurt. Israeli-born chef Yotam Ottolenghi’s cooking style is particularly attentive to cultural traditions, especially Levantine and, more generally, Mediterranean. But blending and hybridating heritages is also important and, for Ottolenghi, a definitely enriching factor.

Ottolenghi himself was born and raised in the Jewish part of post-Six-Day War Jerusalem, the son of a German school principal and of an Italian engineer. Sami Tamimi, his business partner, comes from Palestinian Jerusalem and is the co-author of Jerusalem, Ottolenghi’s most recent book. In it, Jerusalem’s culture, culinary or otherwise, is exhibited in its extremely rich plurality. To name but one example, Yotam’s father Michael Ottolenghi used to cook a recipe similar to the cous cous with tomato and onion that Sami Tamimi’s mother used to make. This recipe, it turns out, comes from Jewish Tripolitania, where Michael’s great-uncle served as an admiral under Italian colonialism.

Today, Ottolenghi runs one restaurant and several popular delis all around London, all of which bear his name. He is best known to the British audience for his popular vegetarian column, which he wrote in the Guardian since 2006 and which resulted in the award-winning cookbook Plenty (2010).

However, his professional career did not start until 1997, when he decided, after a trip to Amsterdam, to quit his job at Ha’aretz and the PhD he had been offered, and start a cookery course in London. He then began to work at Kinghtsbridge’s bakery, where he met his current business partner and co-author Sami Tamimi.

The interior of one of Ottolenghi's restaurant. Photo by Keiko Oikawa.
The interior of one of Ottolenghi’s restaurants. Photo by Keiko Oikawa.

Could you please tell us how you decided to enrol at a cookery school and quit what would have otherwise been a brilliant career in journalism and academia?

Kind of you to say. I could have been a disastrous academic! I loved studying and writing my masters but I think I had too much energy to choose a sedentary career. I love talking and thinking and discovering new things but I’m much happier when I’m up and down between my computer and the kitchen, doing several things at once. When I was studying in my twenties, I was most at ease and most imaginative when cooking for my friends. Enrolling at cookery school was, I thought at the time, a way to just scratch the cooking itch. I guess I’m still scratching. I’m lucky: I’ve still got all the joy of thinking and discovering and writing but my library is just now full of lots of wonderful ingredients and cookery books.

You usually label your own style of cooking “sunny food”. How would you define this expression?

Food which makes people smile; food which calls to mind the sun of the Mediterranean; food people like to look at, want to eat and which makes them happy.

Why is the visual aspect so exceptionally important to your conception of food?

It’s all important to me – there’s no point in something looking great if it doesn’t taste perfect or if the various elements don’t all come seamlessly together – but, sure, the first bite it with the eye. Platters bursting full of colour and textures, freshly chopped green herbs, red slivers of fried chilli, creamy white yogurt. Food is a beautiful thing and I want mine to look immediately bounteous, welcoming, stunning: the very opposite of mean.

Why, as an omnivore, did you feel the need to write a vegetarian column in the Guardian and re-evaluate vegetarianism?

I didn’t ‘feel the need’ per se; the opportunity to write a vegetarian column came to me and I couldn’t see a reason to turn it down. So long as each dish has an internal logic, I’ve never been bound by rules in terms of what ‘should’ be in it. These boundaries – whether they are geographical or vegetarian, for example – are becoming increasingly fluid as lots of people make more flexible options to suit them rather than being confined by the black and white ‘rules’. I never set out to campaign or re-define vegetarianism: learning how versatile vegetables are and how much can be done with them has been as much a journey of discovery for me these past years. Only just the other day I roasted courgettes for the first time to make a baba ganoush, the way you would traditionally roast an aubergine: the result was a revelation!

Jerusalem coverYour most recent book, Jerusalem, is dense with digressions on the cultural background of recipes. How can a closer understanding of the cultural and social roots of food affect or even change our approach to it?

Ultimately, people want the food they make and eat to taste fantastically good. But, absolutely, knowing the background to a dish or making something that has been prepared by generations before one does grant a reverence to a meal that makes it very special. Sitting around and sharing the dish with friends and family, new and old, in the shadow of this history, creates a particular respect for the meal and a respect for the chats that are taking place around it. At the same time, though, it’s still got to taste darn delicious!

At Ottolenghi’s you actively support food products sourced from Palestinian growers. Is your attitude towards Palestine influenced at all by your conception of food?

We source products from all over – vinegar from Catalonia, Spain; seaweed from the Atlantic shores of Ireland and France, tahini from a small family business in Nazareth, Israel – and our first criteria is that they are the best quality ingredients we can find. But, absolutely, we’ve got a great relationship with Moon Valley Enterprises, a young British company that sources foods from across the Levant. Moon Valley has a particular focus on helping Palestinian farmers in the West Bank and strives to upgrade agricultural standards and help develop the region. I hope that this brings prosperity to them and, eventually, gets us all a little closer to peace.

Ottolenghi's Islington deli. Photo by Keiko Oikawa.
Ottolenghi’s Islington deli. Photo by Keiko Oikawa.

Intervista a Yotam Ottolenghi

Yotam Ottolenghi all'interno del suo ristorante. Foto di Keiko Oikawa.
Yotam Ottolenghi all’interno del suo ristorante. Foto di Keiko Oikawa.

Patate arrosto e carciofi di Gerusalemme con limone e salvia. Riso rosso della Camargue e quinoa con arancia e pistacchi. Melanzana arrosto con yogurt allo zafferano. La cucina dello chef anglo-israeliano Yotam Ottolenghi si caratterizza per il rispetto nei confronti delle tradizioni culturali, in particolare levantine e mediterranee in generale, ma anche per la loro contaminazione e ibridazione concepita come fattore di arricchimento.

Egli stesso, d’altronde, è nato e cresciuto nella parte ebraica della Gerusalemme post-guerra dei sei giorni, ma è di madre tedesca e, com’è facile intuire dal cognome, di padre italiano. Sami Tamimi, il suo socio professionale, è invece originario della Gerusalemme palestinese. Con lui Ottolenghi ha scritto il suo ultimo libro, intitolato appunto Jerusalem e pubblicato in Italia da Rizzoli. Qui, la cultura gastronomica (e non solo) di Gerusalemme viene ripercorsa e mostrata nella sua ricchissima pluralità. Per fare solo un esempio, una ricetta molto simile al cous cous con pomodoro e cipolla che usava preparare la madre di Sami Tamimi e preparata invece da Michael Ottolenghi, il padre di Yotam, si rivela essere originaria della Tripolitania ebraica, dove un prozio di Michael era stato ammiraglio all’epoca del colonialismo italiano.

Ad oggi, Ottolenghi gestisce un ristorante e diversi deli di grande successo sparsi per tutta Londra e tutti con l’insegna a proprio nome. È conosciuto al grande pubblico britannico soprattutto per la popolare rubrica vegetariana che ha condotto sul Guardian dal 2006, risultata nella pubblicazione del pluripremiato libro di ricette Plenty (2010).

Il suo percorso professionale ha però inizio solo nel 1997, quando, a seguito di un viaggio ad Amsterdam, decide di abbandonare il dottorato che aveva vinto e il lavoro alla redazione israeliana di Ha’aretz per iniziare un corso professionale di cucina a Londra. Di lì, l’esperienza lavorativa nella bakery di Knightsbridge a Londra e la conoscenza con il suo attuale partner professionale e co-autore Sami Tamimi.

L'interno di uno dei ristoranti di Ottolenghi. Foto di Keiko Oikawa.
L’interno di uno dei ristoranti di Ottolenghi. Foto di Keiko Oikawa.

Può dirci come ha deciso di iscriversi a una scuola di cucina e interrompere quella che altrimenti sarebbe stata una brillante carriera accademica e giornalistica?

Sei gentile a dirlo, ma sarei potuto essere un disastro come accademico! Mi è piaciuto studiare e scrivere la tesi, ma penso che avessi troppa energia per scegliere una carriera sedentaria. Mi piace parlare e pensare e scoprire cose nuove, ma sono molto più felice quando faccio avanti e indietro tra il computer e la cucina, facendo più cose alla volta. Da ventenne, quando studiavo, ero al massimo del mio agio e della mia immaginazione quando cucinavo per i miei amici. Iscrivermi a una scuola di cucina è stato, credo, un modo di coltivare il mio pallino per la cucina. Penso di starlo ancora coltivando, e sono fortunato: conservo ancora tutta la gioia del pensare e dello scoprire e dello scrivere, ma ora la mia biblioteca è piena di ingredienti meravigliosi e di libri di cucina.

Lei è solito chiamare il proprio stile di cucina “sunny food” (“cibo solare”). Come definirebbe questa espressione?

Cibo che faccia sorridere la gente, che richiami alla mente il sole del Mediterraneo, che la gente ami guardare e voglia mangiare, e che la renda felice.

Perché l’aspetto visivo è così straordinariamente importante nella sua concezione del cibo?

Per me è tutto importante: non ha senso che qualcosa abbia un bell’aspetto se il gusto non è ottimale e i vari elementi non si combinano alla perfezione. Però certo, il primo assaggio è con gli occhi. Portate che esplodono nella pienezza di colori e consistenze, il verde degli odori tagliati di fresco, le scaglie rosse di un peperoncino saltato, il bianco cremoso dello yogurt. Il cibo è una cosa bella, e io voglio che il mio appaia immediatamente come generoso, invitante e stupefacente. Esattamente l’opposto che parco.

Perché, da onnivoro, ha sentito l’esigenza di condurre una rubrica vegetariana sul Guardian e rivalutare il vegetarianismo?

Non è che abbia “sentito l’esigenza” di per sé; mi si è presentata l’occasione e non vedevo ragione di rifiutare. Nella misura in cui ogni piatto ha una sua logica interna, non mi sono mai sentito confinato da regole riguardo quello che “dovrebbe” esserci in esso. Questi confini, che siano geografici o vegetariani, diventano sempre più fluidi man mano che sempre più gente fa scelte più flessibili allo scopo di adattarsi piuttosto che sentirsi condizionata da regole del tipo “bianco o nero”. Non ho mai inteso promuovere o ridefinire il vegetarianismo; imparare quanto le verdure siano versatili e quanto si possa fare con esse è stato molto un viaggio di scoperta in questi ultimi anni. Giusto l’altro giorno ho arrostito delle zucchine per fare una baba ganush nello stesso modo in cui normalmente si arrostiscono le melanzane: il risultato è stato una rivelazione!

La copertina di <em>Jerusalem</em>.Il suo ultimo libro, Jerusalem, è denso di digressioni sul retroterra culturale delle ricette. In che modo una maggiore comprensione delle radici sociali e culturali del cibo può modificare il nostro approccio a esso?

Ultimamente, la gente vuole che il cibo che prepara e che mangia abbia un sapore eccellente. Ma assolutamente, conoscere il retroterra di un piatto o cucinare qualcosa che è stato preparato per generazioni prima garantisce una reverenza verso quel cibo che lo rendono particolarmente speciale. Sedersi in tondo e condividere il piatto con amici e famiglia (vecchi e nuovi) all’ombra della storia crea un particolare rispetto per quel cibo e per le conversazioni che hanno luogo intorno ad esso. Allo stesso tempo però, deve anche essere dannatamente delizioso!

Da Ottolenghi supportate attivamente prodotti alimentari provenienti da coltivatori palestinesi. La sua attitudine verso la Palestina è in qualche modo influenzata dalla sua concezione del cibo?

Facciamo arrivare prodotti da tutte le parti: l’aceto dalla Catalogna, le alghe dalle coste atlantiche di Irlanda e Francia, la tahina da una piccola azienda familiare di Nazareth, in Israele; il nostro primo criterio è che sono gli ingredienti della migliore qualità che possiamo trovare. Ma assolutamente, abbiamo un ottimo rapporto con le imprese Moon Valley, una giovane compagnia britannica che fornisce cibi da tutto il levante. Moon Valley ha una particolare attenzione nell’aiutare i contadini palestinesi in Cisgiordania e si batte per aumentare gli standard agricoli e aiutare lo sviluppo della regione. Spero che ciò porti loro prosperità e, alla fine, ci avvicini un po’ di più alla pace.

Il <em>deli</em> di Ottolenghi a Islington. Foto di Keiko Oikawa.
Il deli di Ottolenghi a Islington. Foto di Keiko Oikawa.

«Se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più». Suor Juana Inés de la Cruz, la Fenice d’America

Suor Juana Inés de la Cruz ritratta da Miguel Cabrera (1750). Olio su tela.
Suor Juana Inés de la Cruz ritratta da Miguel Cabrera (1750). Olio su tela.

La misconosciuta figura della monaca e poetessa messicana Suor Juana Inés de la Cruz (1648 – 1695) continua, a dispetto della sua scarsa notorietà, ad affascinare ancora tre secoli dopo la sua morte. Nel 1980 il Premio Nobel per la letteratura Octavio Paz le ha dedicato il saggio Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, da cui dieci anni dopo è stato tratto il film argentino Yo, la peor de todas con Assumpta Serna e Dominique Sanda, mentre in Italia Dacia Maraini le ha dedicato il testo teatrale Suor Juana, la casa del linguaggio. Proprio nel suo libro, Octavio Paz commentava:

Da oltre cinquant’anni la sua vita e la sua opera continuano a incuriosire e ad appassionare eruditi, critici e semplici lettori: perché, giovane e bella, ha scelto la vita monacale? Quale fu la vera indole delle sue tendenze affettive ed erotiche? Qual è il senso e la collocazione di Primero sueño nella storia della poesia? Come furono i suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica? Perché rinunciò alla passione della sua vita, le lettere e il sapere? Fu una rinuncia dovuta a conversione o un’abdicazione? (Octavio Paz, Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, Garzanti, p. 25)

Interrogativi che muovono evidentemente dall’affascinante biografia di Suor Juana. Figlia illegittima di padre nobile ma di madre creola, fu allevata dalla famiglia materna, imparando dalla sorella maggiore a leggere e a scrivere prima ancora di compiere tre anni. Progettando a sette anni di travestirsi da ragazzo per poter frequentare l’università a Città del Messico, riuscì pochi anni dopo a giungere nella capitale entrando nella corte della viceregina come damigella d’onore. Pur senza essere animata da particolare fervore religioso e spinta piuttosto dal desiderio di dedicarsi interamente ai libri, prese i voti monacali entrando poi nel convento di San Girolamo, dove rimase per il resto della sua vita. Come scriverà lei stessa:

Presi i voti perché, pur sapendo che lo stato monacale presentava aspetti (di quelli marginali, parlo, non di quelli sostanziali) che non mi andavano a genio, era comunque, per il netto rifiuto che provavo del matrimonio, la cosa meno fuori luogo e più congrua che potessi scegliere per la mia salvazione; al quale progetto (come al fine più importante) cedettero e piegarono il capo tutti i miei capriccetti, ossia il desiderio di vivere sola, di non avere alcuna occupazione che intralciasse la libertà dei miei studi, né rumore di comunità che disturbasse il quieto silenzio dei miei libri. (Juana Inés de la Cruz, Risposta a Suor Filotea, Sellerio, p. 25)

Qui, dedicandosi interamente alle sue letture, insospettisce la superiora, che riteneva lo studio cosa da Inquisizione (siamo nel Messico coloniale della Spagna controriformista) e inadatto alla “santa ignoranza” che si addiceva a una monaca. Ma la notorietà letteraria Suor Juana comincia a raggiungerla qualche anno dopo, con l’arrivo nella Nuova Spagna del nuovo viceré e della di lui consorte, María Luisa Manrique. In questa occasione, a Suor Juana viene commissionata l’inscrizione da apporre sull’arco di trionfo che tradizionalmente veniva posto in accoglienza del nuovo governatore. Fu con questo incontro che tra María Luisa e Suor Juana ebbe inizio un rapporto di reciproca stima e affettuosa amicizia che, scrive ancora Octavio Paz, “si trasformò rapidamente in un sentimento tanto appassionato che può solo essere chiamato amore.” (Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, p. 258)

Fu proprio grazie alla protezione di María Luisa Manrique che i versi composti da quella che verrà chiamata “la Fenice d’America” assunsero fama crescente fino alla pubblicazione nella madrepatria spagnola dell’opera Inundación Castálida, che divenne uno dei primi casi di letteratura latinoamericana ad acquisire notorietà internazionale. Naturalmente, la popolarità di Suor Juana finì per attirarle l’avversione delle gerarchie ecclesiastiche, in primo luogo l’arcivescovo di Città del Messico, tramandatoci come figura austera e misogina, abituato “a portare il cilicio, a fustigarsi due volte alla settimana e a cambiarsi gli abiti così raramente che il suo corpo era infestato dalle cimici” e solito affermare che “qualora una donna fosse entrata in casa sua, avrebbe fatto svellere le mattonelle da lei calpestate.” (Angelo Morino, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Sellerio, p. 22)

È in questo contesto che il vescovo di Puebla don Manuel Fernández de Santa Cruz, antica conoscenza di Suor Juana, fu spinto a scrivere dietro lo pseudonimo di Suor Filotea un opuscolo polemico cui anteponeva una pubblica reprimenda nei confronti della religiosa, ammonendola ad abbandonare le lettere profane per dedicarsi esclusivamente a quelle religiose. La Risposta a Suor Filotea che Juana Inés de la Cruz pubblicò l’anno successivo sarebbe divenuta uno dei testi più celebri della religiosa e costituisce un’appassionata difesa del diritto all’accesso alla cultura da parte del sesso femminile, rivendicata ricordando precedenti nobili che andavano dalla regina di Saba, “dotta sì da osar tentare con enigmi la saggezza del savio tra i savî”, e dalle sibille “elette da Dio per profetizzare i più insigni misteri della nostra Fede”, a Nicostrata “inventrice delle lettere latine ed eruditissima in quelle greche” e Santa Caterina d’Alessandria “che insegnava e possedeva ogni saggezza dei savî d’Egitto” (Risposta a Suor Filotea, pp. 43-44).

Tra le numerose opere di Suor Juana figurano tuttavia anche diversi scritti minori, tra cui un breve Libro di cucina destinato presumibilmente alla circolazione interna al convento di San Girolamo piuttosto che alla pubblicazione. L’attribuzione di questo scritto alla religiosa è in realtà dubbia. Nonostante un sigillo ne certifichi la paternità (anzi, la maternità), la sciatteria formale del testo culinario e la materialità del suo contenuto stridono con lo stile barocco e l’alto registro dei suoi componimenti poetici e letterari. Inoltre, è noto che le suore del convento di San Girolamo disponevano di schiave per il disbrigo delle faccende domestiche, e che anche a Suor Juana ne fu donata una dalla madre (protagonista del testo teatrale della Maraini). Di certo, il carattere di Juana doveva portarla preferibilmente a indugiare sui libri piuttosto che tra i fornelli.

Rimane il fatto che le ricette raccolte nel Libro di cucina sono costituite prevalentemente da dolci – spesso a base di ingredienti esotici come lo zapote o la guanábana, o richiedenti le preparazioni lunghe e sofisticate tipiche delle cucine arcaiche – testimoni di un certo gusto barocco per la presentazione e più adatti alle occasioni mondane rappresentate dagli incontri letterari ricevuti da Suor Juana piuttosto che alla quotidianità frugale di un convento di monache. Nel libro figurano in effetti più versioni di un “dolce di noci” simile a quelli che Suor Juana aveva fatto pervenire alla Manrique come uno dei tanti omaggi scambiati tra le due, che di volta in volta potevano essere preziose piume di quetzal inviate da parte della viceregina o una rosa colta di prima mattina nel giardino del convento da parte della monaca.

Nel libro di cucina è però possibile leggere in filigrana una dimensione ancora più profonda della vita di Suor Juana. Proprio la cucina, infatti, diveniva nella Risposta a Suor Filotea il pretesto per rivendicare il diritto allo studio e all’insegnamento, e anzi rappresentava un compendio di cultura materiale che veniva inappropriatamente relegata alla vita pratica e che invece non poteva che rappresentare un valore aggiunto alla cultura delle lettere di proprietà maschile:

E che cosa non potrei raccontarvi, Signora, dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell’olio e, al contrario, si spezza nello sciroppo; vedo che, affinché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che per lo zucchero possono venire usati separatamente ma mai insieme. Non voglio comunque stancarvi con tali inezie, che riferisco solo per darvi intera notizia della mia natura, e, credo, vi faranno sorridere; ma, Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più. (Risposta a Suor Filotea, p. 27)

La biografia intellettuale di Suor Juana termina tristemente sotto le pressioni clericali con una rinuncia alle lettere firmata col sangue e la svendita sottocosto della sua sterminata biblioteca a scopo benefico. Rimangono invece, insieme alle sue opere, l’intransigenza con cui difendeva il suo diritto alla cultura, sia materiale che spirituale, e la sua insofferenza verso l’autorità ecclesiastica che glielo negò.

Cucina: storia naturale di una contraddizione

In un suo recente saggio (Cooked: A Natural History of Transformation, Penguin 2013), il giornalista americano Michael Pollan, già autore di diverse pubblicazioni sul comportamento alimentare e noto per le sue critiche all’industria agroalimentare (nonché per le sue posizioni ambigue su OGM e vegetarianismo), si concentra su quella che nel sottotitolo del libro definisce “una storia naturale della trasformazione”, ossia sull’aspetto materiale di quella collezione di processi che definiscono l’attività del cucinare e che, per dirla con l’autore, “mediano tra natura e cultura”, ossia trasformano attraverso l’elaborazione umana la materia prima naturale in un più o meno sofisticato prodotto culturale. Un tema complesso e di indubbio interesse antropologico, già affrontato da Lévi-Strauss nelle sue Mythologiques e in particolare ne Il cotto e il crudo, dove la trasformazione della materia prima in cibo cotto viene analizzata nel suo valore “culturale” che permette all’uomo, attraverso il passaggio cruciale del dominio sull’uso del fuoco, di divenire un essere socializzato, capace di mediazione e di adottare regole sociali. La cucina diventa così un campo di studio per l’analisi delle strutture sociali.

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Vi è però, in questo ambito, almeno un aspetto che vale la pena di considerare separatamente. Nella prefazione al libro, Pollan ricorda come la sua indagine sui processi fondamentali di cottura del cibo lo abbia portato a indagare su quello che definisce il “paradosso culinario”: mentre da una parte le statistiche dimostrano chiaramente che la nostra civiltà spende sempre meno tempo nel cucinare (guidati in questa tendenza, senza grande sorpresa, dagli Stati Uniti), dall’altra parte si spende sempre più tempo a parlarne, a leggerne, a guardare show televisivi a tema e ad affollare i ristoranti con cucine a vista, nuovo status symbol della ristorazione.

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Questa doppia tendenza comporta un aumento della domanda di prodotti alimentari che non richiedano grossi investimenti in termini di tempo nella loro preparazione finale, il che si traduce essenzialmente in un aumento del consumo di cibo industriale, che permette di esternalizzare alle piccole e grandi industrie il lavoro impiegato nella preparazione del pasto. Oltre alle conseguenze negative sulla nostra salute che ben conosciamo, questa tendenza ha effetti anche sull’istituzione del pasto e della sua preparazione. Perché, se prendiamo per buono Lévi-Strauss e consideriamo il cucinare come un processo essenziale di civilizzazione e socializzazione, ciò è nondimeno vero anche per quanto riguarda il consumo del pasto condiviso, per eccellenza occasione di conversazione e di condivisione. È per questo, fa notare Pollan, che la tipica tavola americana con i suoi cibi confezionati – e la conseguente soppressione della convivialità del pasto – incarna perfettamente quelle che definisce come “contraddizioni culturali del capitalismo”, ossia la tendenza di quest’ultimo a distruggere le forme sociali (la famiglia, in primis, ma anche la discussione “democratica” come valore fondante) su cui esso stesso si basa.

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Volendo scavare più a fondo, queste contraddizioni “culturali” ne rispecchiano altre più fondamentali. L’industrializzazione della produzione alimentare, ad esempio, inserisce l’attività culinaria in un processo produttivo inevitabilmente strutturato a catena e internamente organizzato secondo quel processo di divisione del lavoro che costituisce la spina dorsale del nostro sistema economico. Come riassunto nel fin troppo noto esempio dello spillo di Adam Smith, risulterebbe impossibile a una manifattura produrre ricchezza se lo stesso individuo dovesse estrarre il ferro dalla miniera per ricavarne il filo metallico necessario alla produzione di spilli. Così, il tempo sottratto alla preparazione di un pasto può essere agevolmente impiegato in altre attività produttive, dall’elaborazione di teorie economiche alla stesura di articoli per un blog, aumentando contestualmente la produttività sociale. E tuttavia è evidente, senza bisogno di scomodare Marx, come a questa supposta liberazione delle capacità produttive facciano da contraltare altrettante contraddizioni. Come ricorda Pollan, allo stesso modo in cui i limpidi e luminosi schermi su cui leggiamo e scriviamo sono in realtà prodotti grazie a inquinantissime centrali a carbone, i frutti rossi contenuti nei cereali della nostra colazione possono finire nella confezione e quindi nella nostra credenza solo grazie alle giornate passate con la schiena piegata da schiere di lavoratori agricoli.

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Ansel Adams, Farm Workers and Mt. Williamson (1953), campo di prigionia nippo-americano in California.

Anche la divisione del lavoro culinario, vale a dire, nasconde il suo lato oscuro. Si potrebbe anzi aggiungere che è la stessa divisione del lavoro che frappone quella barriera cognitiva che permette a noi fruitori finali del prodotto di poter ignorare le dinamiche reali in atto nel processo produttivo. Con conseguenze esiziali sul modo stesso in cui ci rapportiamo a quei prodotti, che ci appaiono sempre più reificati e sempre meno come il risultato dell’interazione umana con elementi naturali. Macellare personalmente una spalla di maiale, scrive Pollan, significa necessariamente essere messi di fronte al fatto che si sta macellando un grosso mammifero fatto di fasci di muscoli il cui scopo non è quello di nutrire noi. Difficile negare che questa esperienza, normalmente rimpiazzata dall’acquisto di un asettico taglio di carne in una vaschetta plastificata al supermercato, possa cambiare in maniera sostanziale il nostro modo di vedere il pranzo domenicale. Non è un caso che questo argomento sia uno dei più forti e uno dei più ricorrenti nelle battaglie antispeciste, poiché, per dirla con Ralph Waldo Emerson, “hai appena cenato, e per quanto il mattatoio sia scrupolosamente celato alla vista dalla grazia della lontananza, la complicità rimane”.

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Ma nella “fine dell’attività culinaria” giace anche un’altra contraddizione, legata agli aspetti più patriarcali del nostro ordinamento sociale. L’esternalizzazione della produzione alimentare sembra infatti aver portato un avanzamento in termini di civiltà nella misura in cui le donne possono uscire dalle cucine in cui sono state relegate per secoli dal loro ruolo di “angelo del focolare” con l’unico sostanziale compito di gestire l’ambiente domestico e sfamare la famiglia, ruolo che oggi sembra apparire sorprendentemente inattuale. Se le cose stanno davvero così, verrebbe allora da chiedersi per quale ragione questa divisione sessuale del lavoro abbia potuto essere imposta per secoli. Secondo la scienziata politica femminista Janet A. Flemming, ad esempio, una delle ragioni è da ricercarsi nella radici squisitamente materiali e sensoriali dell’attività culinaria: la manipolazione del cibo riguarda essenzialmente l’uso del tatto, dell’olfatto e del gusto, tradizionalmente considerati meno nobili della vista e dell’udito, associati alla dimensione della contemplazione. Così, in buona parte della tradizione filosofica, religiosa e letteraria il cibo è stato associato alla sfera corporale, ferina e istintuale, caratteristiche che in una cultura sessista vengono generalmente attribuite all’universo femminile. Ma se questa divisione sessuale del lavoro è stata davvero superata, perché ci appare ancora oggi a dir poco inappropriata quella campagna pubblicitaria lanciata negli anni ’70 da KFC, dove un manifesto pubblicitario che raffigurava il caratteristico secchiello di pollo fritto era accompagnato dalla scritta “La liberazione della donna”? Non solo, verrebbe da dire, per la discutibile associazione tra il non cucinare (anzi, tra il consumare polli da batteria acquistati da una delle catene di fast food più criticate al mondo) e la pretesa di una qualche forma di avanzamento sociale. E nemmeno per il fatto che una parte essenziale della sfera privata quale è il pasto viene in questo modo subappaltata a una multinazionale del take away. Ciò che vi è in profondità è un paradosso ancora più inquietante: come i dati mostrano, una gran parte delle donne che oggi sono uscite dalle cucine di casa per entrare nel mondo del lavoro sono in realtà impiegate nella produzione alimentare, cucinando per le altre famiglie nel tempo sottratto a cucinare per la propria. Sembrerebbe che il supposto superamento dei ruoli di genere sia tutt’altro che un dato di fatto. D’altro canto, le pubblicità di prodotti alimentari si rivolgono ancora oggi quasi esclusivamente alle donne, segno che neppure la cultura sfacciatamente sessista che quella divisione di ruoli ha mantenuto può essere data per superata.

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KFC presenta: la serata libera della mamma.

Per Pollan, coerentemente con lo spirito del libro, queste contraddizioni parlano a favore dell’urgenza e dell’importanza della riappropriazione dell’attività culinaria sottraendola alla produzione industriale del cibo. Un fatto è certo: se le pratiche culturali riflettono delle contraddizioni sociali profonde e radicate, la cucina non sembra fare eccezione.

Eels, Pie, and Mash: l’East End di Londra e la cultura delle anguille

Eel-Pie-and-Mash

Siamo abituati a conoscere l’anguilla, fritta o in umido, come uno dei più rappresentativi elementi della tradizione natalizia del sud Italia o, come a Comacchio, consumata durante tutta la stagione, arrostita alla brace. Oltremanica, invece, l’anguilla ha una tradizione particolare di cucina povera e popolare, indissolubilmente legata alla storia e alla cultura della zona di cui è tipica, l’East End di Londra.

Situato sulla sponda nord del Tamigi, delimitata a ovest dalla city e ad est dal fiume Lea, l’East End di Londra non ha una definizione geografica ufficiale, sviluppandosi continuamente al ritmo dell’espansione dell’intera metropoli, dettato inizialmente dalla rivoluzione industriale, che ha trovato sul fiume Lea la sede delle principali manifatture londinesi, e poi da successive ondate di migrazione dalle colonie e dalla sempre crescente speculazione immobiliare, che determinando un aumento vertiginoso degli affitti hanno spinto molta gente a spostarsi verso la periferia orientale, estendendo i confini della zona fino a Dagenham.

Paul Trevor, Officina di carpenteria. Brick Lane, 1977. © 2007 Paul Trevor.
Paul Trevor, Officina di carpenteria. Brick Lane, 1977. © 2007 Paul Trevor.

Nella storia dell’East End – e nella nostra storia di anguille – ha però giocato un ruolo da indiscusso protagonista il vento che soffia nella capitale da sud-ovest, le tracce della cui azione sono visibili sulle facciate sud e ovest della cattedrale di St. Paul, sbiancate dalla pioggia battente ed erose dai detriti trasportati dal vento. È questo vento che, portando con sé i fumi delle prime ciminiere, ha caratterizzato fin dal ‘600 l’ovest di Londra come una zona relativamente poco inquinata, trasformandola nell’appetibile zona residenziale il cui carattere mantiene oggi più che mai. L’est di Londra, al contrario, cominciò ad ospitare le abitazioni più a buon mercato in cui potevano risiedere gli operai dei docks, definendosi come la zona operaia per eccellenza. Prima che le vicende di Jack lo Squartatore scatenassero la fantasia dei giornalisti, alimentando la fama dell’East End come zona malfamata (tanto che Jack London la definì senza mezzi termini “l’abisso”), quel lembo di terra compreso tra il Tower Bridge e la sponda ovest del fiume Lea era il cuore pulsante dell’industria londinese, con la sua concentrazione di tintorie, industrie chimiche e produttori di letame, manifatture di colla e di paraffina, fabbriche di vernice e concimi vari. L’identità operaia della zona era così forte da attrarre attivisti politici da tutta la nazione e non solo. Qui aveva sede il Circolo degli Anarchici frequentato da Malatesta e Kropotkin e visitato in più occasioni da Lenin. Qui, nel 1936, l’Unione britannica dei fascisti di Oswald Mosley fu sbaragliata durante una guerriglia urbana che divenne nota come “battaglia di Cable Street”, dal nome della strada di Whitechapel in cui gli antifascisti eressero le barricate per impedire la marcia antisemita.

Battaglia di Cable Street
Battaglia di Cable Street (1936).

Tale identità operaia trovava corpo nello stereotipo del cockney, l’East Ender popolare dalla caratteristica parlata quasi priva di consonanti e con le vocali arrotate. L’accento cockney diveniva anzi una vera e propria lingua grazie al suo rhyming slang, un complicato dialetto in cui le parole vengono sostituite da altre che fanno rima con le prime – come nella famosa espressione “apples and pears”, che sostituisce il più ovvio “stairs” – il cui codice veniva appreso col latte materno da coloro che, come vuole la tradizione, sono nati dove si possono sentire le campane della chiesa di St Mary-le-Bow appena dietro a St Paul, ma che doveva invece risultare incomprensibile alle orecchie indiscrete della polizia che indagava sui traffici che avvenivano lungo i docks.

Paul Trevor, Mercato domenicale. Cheshire street, 1976. © 2007 Paul Trevor.
Paul Trevor, Mercato domenicale. Cheshire Street, 1976. © 2007 Paul Trevor.

Qualcuno ha suggerito che il termine “cockney” derivi dal latino coquina, ad indicare il brulicare di venditori di cibo da strada che ha caratterizzato la vita londinese fin dagli albori. L’etimologia più probabile sembra però da ricercarsi nell’espressione “uovo di gallo” (cock’s egg, o, in inglese medievale, coken ey) che indicava le uova dalla forma inusuale. Sia come sia, le radici culinarie della parola ben testimoniano il ruolo della cultura gastronomica come il tratto più distintivo dell’identità dell’East End. Se il pasticcio di carne in crosta, nelle sue varianti regionali, è un simbolo della cucina popolare britannica fin dalle sue origini, per la sua agibilità ad essere trasportato lungo le rotte fluviali e marittime che assicuravano l’attività commerciale dell’isola, in epoche in cui la carne scarseggiava era il Tamigi stesso a fornire la materia prima. Ostriche ed altri molluschi facilmente accessibili alla pesca venivano da sempre venduti al dettaglio lungo tutte le strade di Londra, per non parlare del piatto nazionale, il fish and chips, a base di filetto di merluzzo, di haddock (simile al merluzzo e diffusissimo nelle aree atlantiche, specialmente in Scozia), o più raramente di platessa.

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Jellied eels, in porzione da asporto.

Quando però l’inquinamento industriale raggiunse livelli che hanno scolpito per sempre l’immaginario della città, fu l’anguilla a ritagliarsi un posto di rilievo nella dieta cockney. Una delle poche specie capace di resistere agli alti livelli di inquinamento da scarichi industriali delle acque del Tamigi, con le sue carni grasse l’anguilla forniva l’apporto nutritivo necessario a sostenere le lunghe ore di lavoro manuale negli stabilimenti portuali. In una cucina prevalentemente povera e popolare, l’anguilla veniva consumata senza particolari sofisticazioni, tagliata a tocchi e bollita in una mistura di acqua e aceto aromatizzati e poi lasciata a raffreddare nel brodo di cottura che, grazie al collagene presente nelle proteine rilasciate dall’anguilla, si solidifica dando origine alla caratteristica “anguilla in gelatina” (jellied eel), da consumare al cucchiaio, anche in versione “da passeggio”. In alternativa, le anguille potevano essere stufate in un semplice brodo con l’aggiunta di prezzemolo (liquor), che dava sapore e colore al piatto, altrimenti piuttosto scarno. In questa versione, l’accompagnamento principe era il purè di patate (mash), particolarmente adatto a stemperare il brodo verde. Il piatto completo prevedeva perciò, a seconda della disponibilità, anguilla, pasticcio di carne e purè, Eel, pie and mash (nella foto in apertura dell’articolo), che dava anche il nome alle rustiche tavole calde in cui veniva servito. Spesso però era l’anguilla stessa a sostituire l’agnello o il manzo come ripieno della sfoglia del pasticcio, cosa che peraltro permetteva anche la vendita in strada e all’aperto proteggendo al contempo l’anguilla dalle polveri e dalla fuliggine provenienti dalle ciminiere delle fabbriche che popolavano la zona.

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L’interno di “M. Manze’s”, il più antico eel & pie shop di Londra. © 2013 Oli Scarff.

Oggi, l’anguilla è quasi scomparsa dalle acque del Tamigi e la classe operaia bianca londinese non esiste più, spazzata via dalla riconversione economica della città che ha attirato nuove ondate di migrazione dalle ex-colonie, trasformando quella che una volta era una zona operaia in un brulicante melting pot di etnie con il loro apporto di ingredienti esotici e cultura gastronomica finora sconosciuta. La cucina indiana, in particolare, ha già ridefinito quella inglese, venendo assimilata nell’identità nazionale come già era stato per il tè ai tempi dell’Impero Britannico. Insieme alla cultura cockney, si sono diradati fino a scomparire anche i tradizionali Pie and mash shop, con le loro caratteristiche pareti in ceramica decorata bianca e verde, gli spartani banchi di legno e i tavoli di marmo, le vasche metalliche in cui contenere anguilla e gelatina e la grossa marmitta per il purè. Fred Cooke, proprietario di uno dei più famosi pie and mash shop di Londra, ha chiuso nel 1997 il suo locale di Dalston aperto decenni prima dal nonno, lasciando il posto a un anonimo ristorante cinese che ha mantenuto un bizzarro connubio tra cucina orientale e arredamento inglese tradizionale.

Robert Cooke, quarta generazione, davanti al suo “F. Cooke” di Broadway Market.

A Broadway Market, frequentatissimo dagli hipster, permane ancora un ristorante a insegna “F. Cooke” che la sera si trasforma spesso in un locale con tanto di musica e luci al neon. A servire ancora anguille secondo la ricetta originale, sotto lo Shard di Renzo Piano, è “M. Manze’s”, aperto al giro del secolo scorso dall’italiano Michele Manze giunto a Londra in una precedente ondata migratoria, aggiudicandosi il primato di più antica eel and pie house di Londra con tanto di targa commemorativa ufficiale destinata ai luoghi più significativi del Regno Unito. Sotto la placca blu, campeggia però un cartello scritto a computer: “Ci dispiace informarvi che la disponibilità di anguille è estremamente bassa, e di conseguenza i prezzi aumentano continuamente. È possibile che la fornitura di anguille scompaia completamente nel prossimo futuro.”

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