«Se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più». Suor Juana Inés de la Cruz, la Fenice d’America

Suor Juana Inés de la Cruz ritratta da Miguel Cabrera (1750). Olio su tela.
Suor Juana Inés de la Cruz ritratta da Miguel Cabrera (1750). Olio su tela.

La misconosciuta figura della monaca e poetessa messicana Suor Juana Inés de la Cruz (1648 – 1695) continua, a dispetto della sua scarsa notorietà, ad affascinare ancora tre secoli dopo la sua morte. Nel 1980 il Premio Nobel per la letteratura Octavio Paz le ha dedicato il saggio Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, da cui dieci anni dopo è stato tratto il film argentino Yo, la peor de todas con Assumpta Serna e Dominique Sanda, mentre in Italia Dacia Maraini le ha dedicato il testo teatrale Suor Juana, la casa del linguaggio. Proprio nel suo libro, Octavio Paz commentava:

Da oltre cinquant’anni la sua vita e la sua opera continuano a incuriosire e ad appassionare eruditi, critici e semplici lettori: perché, giovane e bella, ha scelto la vita monacale? Quale fu la vera indole delle sue tendenze affettive ed erotiche? Qual è il senso e la collocazione di Primero sueño nella storia della poesia? Come furono i suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica? Perché rinunciò alla passione della sua vita, le lettere e il sapere? Fu una rinuncia dovuta a conversione o un’abdicazione? (Octavio Paz, Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, Garzanti, p. 25)

Interrogativi che muovono evidentemente dall’affascinante biografia di Suor Juana. Figlia illegittima di padre nobile ma di madre creola, fu allevata dalla famiglia materna, imparando dalla sorella maggiore a leggere e a scrivere prima ancora di compiere tre anni. Progettando a sette anni di travestirsi da ragazzo per poter frequentare l’università a Città del Messico, riuscì pochi anni dopo a giungere nella capitale entrando nella corte della viceregina come damigella d’onore. Pur senza essere animata da particolare fervore religioso e spinta piuttosto dal desiderio di dedicarsi interamente ai libri, prese i voti monacali entrando poi nel convento di San Girolamo, dove rimase per il resto della sua vita. Come scriverà lei stessa:

Presi i voti perché, pur sapendo che lo stato monacale presentava aspetti (di quelli marginali, parlo, non di quelli sostanziali) che non mi andavano a genio, era comunque, per il netto rifiuto che provavo del matrimonio, la cosa meno fuori luogo e più congrua che potessi scegliere per la mia salvazione; al quale progetto (come al fine più importante) cedettero e piegarono il capo tutti i miei capriccetti, ossia il desiderio di vivere sola, di non avere alcuna occupazione che intralciasse la libertà dei miei studi, né rumore di comunità che disturbasse il quieto silenzio dei miei libri. (Juana Inés de la Cruz, Risposta a Suor Filotea, Sellerio, p. 25)

Qui, dedicandosi interamente alle sue letture, insospettisce la superiora, che riteneva lo studio cosa da Inquisizione (siamo nel Messico coloniale della Spagna controriformista) e inadatto alla “santa ignoranza” che si addiceva a una monaca. Ma la notorietà letteraria Suor Juana comincia a raggiungerla qualche anno dopo, con l’arrivo nella Nuova Spagna del nuovo viceré e della di lui consorte, María Luisa Manrique. In questa occasione, a Suor Juana viene commissionata l’inscrizione da apporre sull’arco di trionfo che tradizionalmente veniva posto in accoglienza del nuovo governatore. Fu con questo incontro che tra María Luisa e Suor Juana ebbe inizio un rapporto di reciproca stima e affettuosa amicizia che, scrive ancora Octavio Paz, “si trasformò rapidamente in un sentimento tanto appassionato che può solo essere chiamato amore.” (Suor Juana Inés de la Cruz o le insidie della fede, p. 258)

Fu proprio grazie alla protezione di María Luisa Manrique che i versi composti da quella che verrà chiamata “la Fenice d’America” assunsero fama crescente fino alla pubblicazione nella madrepatria spagnola dell’opera Inundación Castálida, che divenne uno dei primi casi di letteratura latinoamericana ad acquisire notorietà internazionale. Naturalmente, la popolarità di Suor Juana finì per attirarle l’avversione delle gerarchie ecclesiastiche, in primo luogo l’arcivescovo di Città del Messico, tramandatoci come figura austera e misogina, abituato “a portare il cilicio, a fustigarsi due volte alla settimana e a cambiarsi gli abiti così raramente che il suo corpo era infestato dalle cimici” e solito affermare che “qualora una donna fosse entrata in casa sua, avrebbe fatto svellere le mattonelle da lei calpestate.” (Angelo Morino, Il libro di cucina di Juana Inés de la Cruz, Sellerio, p. 22)

È in questo contesto che il vescovo di Puebla don Manuel Fernández de Santa Cruz, antica conoscenza di Suor Juana, fu spinto a scrivere dietro lo pseudonimo di Suor Filotea un opuscolo polemico cui anteponeva una pubblica reprimenda nei confronti della religiosa, ammonendola ad abbandonare le lettere profane per dedicarsi esclusivamente a quelle religiose. La Risposta a Suor Filotea che Juana Inés de la Cruz pubblicò l’anno successivo sarebbe divenuta uno dei testi più celebri della religiosa e costituisce un’appassionata difesa del diritto all’accesso alla cultura da parte del sesso femminile, rivendicata ricordando precedenti nobili che andavano dalla regina di Saba, “dotta sì da osar tentare con enigmi la saggezza del savio tra i savî”, e dalle sibille “elette da Dio per profetizzare i più insigni misteri della nostra Fede”, a Nicostrata “inventrice delle lettere latine ed eruditissima in quelle greche” e Santa Caterina d’Alessandria “che insegnava e possedeva ogni saggezza dei savî d’Egitto” (Risposta a Suor Filotea, pp. 43-44).

Tra le numerose opere di Suor Juana figurano tuttavia anche diversi scritti minori, tra cui un breve Libro di cucina destinato presumibilmente alla circolazione interna al convento di San Girolamo piuttosto che alla pubblicazione. L’attribuzione di questo scritto alla religiosa è in realtà dubbia. Nonostante un sigillo ne certifichi la paternità (anzi, la maternità), la sciatteria formale del testo culinario e la materialità del suo contenuto stridono con lo stile barocco e l’alto registro dei suoi componimenti poetici e letterari. Inoltre, è noto che le suore del convento di San Girolamo disponevano di schiave per il disbrigo delle faccende domestiche, e che anche a Suor Juana ne fu donata una dalla madre (protagonista del testo teatrale della Maraini). Di certo, il carattere di Juana doveva portarla preferibilmente a indugiare sui libri piuttosto che tra i fornelli.

Rimane il fatto che le ricette raccolte nel Libro di cucina sono costituite prevalentemente da dolci – spesso a base di ingredienti esotici come lo zapote o la guanábana, o richiedenti le preparazioni lunghe e sofisticate tipiche delle cucine arcaiche – testimoni di un certo gusto barocco per la presentazione e più adatti alle occasioni mondane rappresentate dagli incontri letterari ricevuti da Suor Juana piuttosto che alla quotidianità frugale di un convento di monache. Nel libro figurano in effetti più versioni di un “dolce di noci” simile a quelli che Suor Juana aveva fatto pervenire alla Manrique come uno dei tanti omaggi scambiati tra le due, che di volta in volta potevano essere preziose piume di quetzal inviate da parte della viceregina o una rosa colta di prima mattina nel giardino del convento da parte della monaca.

Nel libro di cucina è però possibile leggere in filigrana una dimensione ancora più profonda della vita di Suor Juana. Proprio la cucina, infatti, diveniva nella Risposta a Suor Filotea il pretesto per rivendicare il diritto allo studio e all’insegnamento, e anzi rappresentava un compendio di cultura materiale che veniva inappropriatamente relegata alla vita pratica e che invece non poteva che rappresentare un valore aggiunto alla cultura delle lettere di proprietà maschile:

E che cosa non potrei raccontarvi, Signora, dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell’olio e, al contrario, si spezza nello sciroppo; vedo che, affinché lo zucchero si conservi fluido, basta aggiungervi una piccolissima parte d’acqua in cui sia stata messa una cotogna o un altro frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono così contrari, che per lo zucchero possono venire usati separatamente ma mai insieme. Non voglio comunque stancarvi con tali inezie, che riferisco solo per darvi intera notizia della mia natura, e, credo, vi faranno sorridere; ma, Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofie da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparar la cena. E io dico spesso pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più. (Risposta a Suor Filotea, p. 27)

La biografia intellettuale di Suor Juana termina tristemente sotto le pressioni clericali con una rinuncia alle lettere firmata col sangue e la svendita sottocosto della sua sterminata biblioteca a scopo benefico. Rimangono invece, insieme alle sue opere, l’intransigenza con cui difendeva il suo diritto alla cultura, sia materiale che spirituale, e la sua insofferenza verso l’autorità ecclesiastica che glielo negò.

Martedì grasso, il caos a tavola

Ciò che rimane oggi del carnevale, di questa antica festa popolare, sono perlopiù cartoline, i selfies in maschera sui ponti di Venezia o le immagini delle grandi sfilate di carri in cartapesta nei carnevali di Viareggio, Cento o Putignano. Ci sono le lotterie e la loro dimensione televisiva da varietà o da avanspettacolo, con qualche rimasuglio di satira disinnescata, di quella che, per dirla con il Moretti di Aprile “non avendo padroni, sta bene sotto ogni padrone”.
Rimangono però anche i bambini e la gioia con la quale indossano i panni dei più vari personaggi storici o di fantasia. Le loro piazze, colorate dai coriandoli, nelle quali non è difficile incontrare corsari e principesse, fatine e cavalieri. E rimangono anche alcuni prodotti tipici, i dolci su tutti, e quindi ecco le chiacchiere (o bugie), le castagnole, le frìtole, le zeppole, i krapfen, e via di seguito.

Eppure il carnevale, dal latino carnem levare (“eliminare la carne”) – ad indicare il banchetto dell’ultimo giorno (il martedì grasso appunto) prima della Quaresima, con i suoi quaranta giorni di astinenza e digiuno – è una festa antica e complessa, che ha vissuto numerose trasformazioni storiche e culturali, che quasi sempre si sono svolte attorno ad una tavola imbandita.

Molto brevemente, quella che il carnevale festeggia è una transizione, il passaggio dall’inverno alla primavera e dunque a una nuova fioritura e a un nuovo raccolto: il superamento delle avverse condizioni invernali con l’esorcizzazione delle paure passate. Simbolicamente il carnevale segnava il passaggio dal regno degli inferi alla terra dei vivi. Secondo il rituale popolare, per rabbonire e al contempo onorare le anime dei defunti venivano prestati loro dei corpi provvisori: le maschere, che avevano quindi spesso un significato apotropaico, come ad esempio le maschere dei Mamuthones, che tutt’oggi sfilano nel carnevale di Mamoiada. Alla fine del carnevale, l’ordine che è stato sconvolto viene generalmente ricostituito con un rituale purificatorio culminante nei tradizionali “fuochi” con in cui viene bruciato il fantoccio del carnevale.

Dunque nella tradizione popolare il carnevale rappresentava la messinscena festosa del caos prima del ritorno all’ordine (e al lavoro nei campi), un passaggio rituale di liberazione dalle paure. L’euforia collettiva si trasformava in rovesciamento dei valori dominanti, in ribaltamento dei ruoli: il basso diventava alto e viceversa. I bambini comandavano sulla comunità, le donne sugli uomini, il buffone sostituiva il vescovo. Era la festa della maschera e del travestimento. Le stampe del Cinquecento e del Seicento hanno tramandato numerose immagini di questo mondo rovesciato: pesci volanti, lepri che nuotano, pecore che tosano il pastore.

A questa realtà si lega il tema della fame, dell’ossessione per il cibo, che dà corpo a un altro mito popolare, l’utopia del paese di Cuccagna, il paese ideale, dell’abbondanza e della felicità materiale. Già presente in Boccaccio nella novella di Calandrino, diventa dal Quattrocento in poi oggetto di frequente rappresentazione pittorica. Cuccagna è il sogno delle masse affamate che sfogano nel delirio del cibo la loro fame secolare.

La fame, il cibo ingoiato, divorato, tracannato sono temi ricorrenti nel Morgante di Luigi Pulci, dove la dilatazione del corpo (Morgante è uno dei primi giganti della storia letteraria italiana) determina un’alterazione delle normali proporzioni, che sfida beffardamente ogni visione conformista e benpensante. Morgante è forza smisurata, animalità, voracità insaziabile. È il simbolo del basso-corporeo elevato a unica fonte di piacere.

Ma è con Teofilo Folengo e soprattutto con François Rabelais che questo tema raggiunge la massima diffusione letteraria. Se Folengo apre il suo Baldus all’insegna del paese di Cuccagna, rovesciando l’idea di paesaggio arcardico, decretando la fine dei boschetti e delle acque limpide e fresche, che lasciano il posto a un paese costituito solamente di delizie culinarie, è poi nel Gargantua e Pantagruele di Rabelais che questa poetica trova il suo compimento esemplare. Come ha osservato il critico Michail Bachtin, esaltare il basso-corporeo, invertire l’alto e il basso, significa attuare un rovesciamento di valori, che trova la sua massima espressione nello spirito carnevalesco. Attraverso il riso e il gioco, Rabelais opera la liberazione gioiosa di una nuova coscienza critica, di una dissacrante e suprema libertà di pensiero.

Questo sopravvento del caos sull’ordine sociale, questo trionfo del basso, del materiale e del corporeo sui valori costituiti era particolarmente evidente nelle tradizioni del Carnevale romano rinascimentale. Antenato del moderno carnevale italiano ed erede diretto dei saturnalia – dedicati a Saturno, dio della mitica “età dell’oro” in cui gli uomini vivevano da uguali, concedevano temporaneamente agli schiavi condizioni da uomini liberi – il Carnevale romano ben incarnava questo spirito di paganesimo popolare. Qui i giorni grassi del periodo pre-quaresimale venivano suggellati consumando la più peccaminosa delle carni: il maiale.

Animale dalla simbologia articolatissima, nel Medioevo il maiale viene a caratterizzare i giorni di festa fornendo il materiale per insaccati, ciccioli, lardo e frittelle. Nello strutto di maiale venivano fritte bande di pasta dolce lievitata che richiamavano molto da vicino le frictilia dei Saturnali e che sono giunte a noi con il nome di chiacchiere, non a caso il dolce più rappresentativo del carnevale.

Durante il carnevale di Roma, infine, si consumava la cosiddetta “cuccagna del porco”, in cui il cibo veniva distribuito al popolo gettandolo dalle finestre della residenza papale di palazzo Colonna, mettendo così in scena nuovamente il livellamento carnevalesco delle gerarchie sociali, che nella capitale erano incarnate nel potere del clero. La “cuccagna del porco”, anzi, degenerava spesso in jacquerie, che si manifestava sia come vero e proprio tumulto di folla sia sublimata nell’esercizio pubblico della crudeltà nei confronti delle bestie – maiali inclusi – che venivano satiricamente crocefissi e messi a dissanguare sugli “alberi della cuccagna” prima di essere consumati.

È anzi nel protagonismo stesso del maiale durante il periodo carnevalesco che si può vedere incarnata la supremazia del popolare sull’autorità religiosa. Il significato carnevalesco del maiale costituiva infatti una riappropriazione popolare nei confronti del suo valore religioso, associato essenzialmente alla figura di Sant’Antonio abate, a sua volta, come spessissimo accade, frutto della sovrapposizione con un’usanza laica precedente. Resta il fatto che nella tradizione popolare – immortalata da Calvino in una delle indimenticabili Fiabe italiane che raccolse – Sant’Antonio diviene un ex porcaio divenuto religioso che visitando gli inferi riesce a turlupinare degli umanissimi diavoli e a sottrarre loro il fuoco per farne dono agli uomini. Una credenza medievale ascriveva inoltre al santo poteri taumaturgici, tanto che la sua protezione veniva invocata per la cura dell’herpes zoster, il “fuoco di Sant’Antonio”, che veniva infatti trattato con il lardo. Ancora oggi, d’altronde, nella tradizione abruzzese i festeggiamenti del Carnevale si intrecciano con la ricorrenza di S. Antonio. In diversi paesi dell’Italia centro-meridionale, il martedì grasso viene “anticipato” al 16 gennaio, dove viene festeggiato con i consueti eccessi, anche alimentari, suggellati dal consumo dei prodotti della lavorazione del maiale.

Altrove, invece, specialmente nell’area padana, la tradizione carnevalesca pagana si sovrappone a un’altra festività religiosa, quella di San Giuseppe, che cade il 19 di marzo. Anche qui vige l’uso di mangiare di grassa prima che inizi l’austerità quaresimale, in particolare il fritto, e anzi spostando ai giorni di Carnevale la preparazione di quei fritti che nel resto d’Italia si preparano per la ricorrenza religiosa: le zeppole o, appunto, i tortelli di S. Giuseppe.

Le condizioni di esistenza del Parmigiano

Vendita di formaggio (miniatura), incisione dal <em>Tacuinum Sanitatis</em>, <em>Codex Vindobonensis Series Nova</em> 2644, Österreische Nationalbibliothek, Vienna.
Vendita di formaggio (miniatura), incisione dal Tacuinum Sanitatis, Codex Vindobonensis Series Nova 2644, Österreische Nationalbibliothek, Vienna.

Quando ci si avvicina al cibo ci si espone a una tentazione particolare, quella di pensarlo in astratto, di estrapolarlo dal suo contesto e degustarne quindi forma e sapore dandone per scontata l’esistenza, accettando con leggerezza una mitologia artificiosa spesso riconducibile unicamente a delle trovate pubblicitarie o a labili suggestioni di una tradizione tutta da verificare.

Si commette così l’errore di avvicinarsi al cibo con indifferenza. La stessa indifferenza che porta il consumatore a non curarsi della stagionalità dei prodotti e della sostenibilità delle colture e pretendere dunque di ritrovare in inverno le stesse zucchine che trovava in estate.

Una delle ragioni che animano questo blog è il tentativo di scorgere nel cibo tutta la complessità che lo caratterizza, ripensandolo in maniera non essenzialista. Si svela così una merce complessa, in grado di riflettere i più diversi aspetti sociali e culturali. Se si ricerca questo tipo di profondità, si noterà come il cibo si trasformi in potentissimo strumento di osservazione della realtà, una materia prima o un semi-lavorato dall’apparenza banale nella quale si annodano invece i fili di un discorso che è insieme reale e politico.

Rileggendo i processi di produzione di uno tra i più nobili e rinomati prodotti dell’industria casearia italiana, il Parmigiano Reggiano, finiscono per essere messi in discussione non solo molti dei luoghi comuni sul made in Italy e sulla tradizione gastronomica, ma anche una lunga serie di considerazioni politiche fondate su una difesa disinformata dei valori identitari e sui “pericoli” legati all’immigrazione.

Da tempo ormai la comunicazione pubblicitaria legata al Parmigiano Reggiano è fortemente orientata a trasmettere l’idea rassicurante di una secolare genealogia artigianale, di un sapere territoriale e tradizionale. “Dietro ogni scaglia di Parmigiano Reggiano ci sono quasi mille anni di storia e di gesti ripetuti”, questo raccontano le operose mani (dalla perfetta manicure) del nonno, padre di famiglia, artificiosamente artigiano che tramanda usi e costumi della degustazione del Parmigiano alla giovane nipote (“mi ha detto che lo fanno a mano, ogni mattina”).

Non si avvertono rotture, il Parmigiano “è unico”, ed è sempre quello, lo stesso che citava Boccaccio nel Decameron:

“in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan le genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva” (Boccaccio, Decameron, Giornata VIII, novella 3, 9).

Lo stesso dei medievali monaci benedettini di San Giovanni e di San Prospero o dei monaci cistercensi di San Martino di Valserena e Fontevivo. E ancora lo stesso dei sogni di fortuna del Giannettino, di Collodi, “Se vinco un terno – diceva agli amici – voglio comperare una villa, un palazzo, quattro cavalli scappatori, una bella galleria di quadri e una forma intera di cacio parmigiano” (Carlo Collodi, Giannettino, Milano, Barion, 1926).

Sarebbe questa stessa manualità, questo continuum nella tradizione, a riprodurre oggi il “Re dei formaggi” e a garantirne l’unicità, a riportalo quotidianamente nei supermercati, ad intagliarlo “a scaglie” nei buffet dei nostri aperitivi, pronto per essere degustato. Semplice e lineare.

O forse no. Forse sono anche altre le condizioni di (r)esistenza del Parmigiano Reggiano nel 2014, forse i valori di continuità, tradizione, artigianalità e unicità non bastano a portare a compimento il ciclo della produzione del Parmigiano, che, questa sì, permette agli allevatori e alle aziende del territorio di sopravvivere o di produrre utili. E come hanno, tra i primi, rilevato gli studenti della web tv Cortocircuito di Reggio Emilia, sono condizioni che ci interrogano sull’Italia di oggi, sulle evoluzioni della società contemporanea.

 

Immaginate di guidare lungo la strada provinciale 42 che collega Guastalla a Carpi. Facendo attenzione a mantener dritta la guida e sperando di non trovare il “nebbione” vedreste sfilare intorno a voi diversi caseifici; se decideste di fermarvi in uno dei numerosi spacci adiacenti vi potrebbe capitare con una buone probabilità di essere serviti non da Cesira o Iolanda ma da Rameshwari o da Shaila e sentireste forse una declinazione particolare di quella erre arrotata del parlato reggiano. Superato il primo momento di straniamento potreste a questo punto soprassedere, pagare uscire e proseguire oltre, arrivare a Carpi e riconnettervi con l’autostrada, continuare il vostro viaggio e al ritorno decantare agli amici le qualità di quel parmigiano preso là dove lo fanno accennando, magari con ironia, a quell’incontro inaspettato. Se invece decideste di sostare nel borgo agricolo di Novellara, il paese di Augusto Daolio, che sta proprio nel mezzo della provinciale 42, non tardereste poi molto a darvi spiegazione di quell’incontro. Tra i capannoni della zona industriale di Novellara sorge infatti il Gurdwara Singh Sabha, il maggiore tempio sikh d’Europa dopo quello di Londra.

L’Emilia-Romagna è la seconda regione italiana per presenza di cittadini indiani residenti dopo la Lombardia. La loro presenza si concentra nelle provincie di Reggio Emlia, Parma, Modena e Piacenza. A Novellara gli indiani arrivarono verso la fine degli anni Ottanta, molti di loro provenivano dal Punjab, la regione indiana dove il sikhismo è più praticato, e la loro comunità conta oggi circa 25mila persone.

Il Dossier immigrazione 2012 della Caritas ha stimato che il numero complessivo degli immigrati regolari abbia di poco superato i 5 milioni di persone alla fine del 2011. Gli immigrati dall’Asia, che alla fine del 2010 hanno inciso per il 12,7% sull’insieme dei residenti stranieri nell’Unione Europea, nell’anno successivo sono arrivati ad incidere in Italia per 6 punti percentuali in più, per un totale di 924.443 soggiornanti. In particolare, l’Italia è lo Stato membro che nell’UE accoglie le collettività più numerose di cinesi (277.570 soggiornanti nel 2011), filippini (152.382), bangladesi (106.671) e srilankesi (94. 577), mentre è il secondo Stato per quanto riguarda la presenza di indiani (145.164) e pakistani (90.185).

L’esistenza del Parmigiano Reggiano nel 2014 si lega inesorabilmente alla loro presenza e al loro lavoro. Un articolo apparso su TM News nell’ottobre del 2011 racconta ad esempio la storia di Manijt Singh. “arrivato in Italia da sette anni, lavora nella Formaggeria Cacciali. Il lavoro è duro, si inizia alle 6 del mattino e si termina alle 20 con una pausa di qualche ora, per produrre 10 forme al giorno. Graziano Cacciali fa il Parmigiano da quando aveva 12 anni: è stato lui a insegnare il mestiere a Manijt. La pazienza e la calma dei Sikh, insieme al rispetto delle vacche, ne fanno i lavoratori ideali per produrre il formaggio: in questa cooperativa, che conta oltre 1.100 capi di bestiame, sono la metà dei lavoratori. Un contributo fondamentale alla produzione di 3 milioni di forme di Parmigiano all’anno, per un mestiere che rischiava di scomparire, come spiega Stefano Gazzini”. Qui il video:

 

Ripensando a quell’immagine un po’ stantia di Parmigiano tradizionale, artigianale e familiare che ci viene quotidianamente riproposta, non si potranno non notare ora le pesanti contraddizioni che la attraversano. Se il Parmigiano Reggiano continua ad esistere è infatti, almeno in parte, merito dei Sikh di Novellara e del lavoro dei migranti, che attraverso la loro professionalità hanno saputo incontrare la domanda di manodopera sul territorio emiliano per il quale rappresentano una ricchezza sia in termini economici (il bilancio costi/benefici dell’immigrazione per le casse statali registra un +1,7 miliardi di euro) sia in termini culturali, garantendo la sopravvivenza di un prodotto tradizionale che rischiava altrimenti di scomparire. Una ricchezza che sarebbe giusto sottolineare, un bagaglio di conoscenze reali, pratiche e umane che vanno a sommarsi a quelle tradizionali e non certo ad annacquarle. A discapito del titolo dell’ultima campagna pubblicitaria legata al Parmigiano, intitolata “sono le differenze a renderlo unico”, rileviamo come le “differenze” vengano invece quotidianamente occultate e venga negato ogni riconoscimento all’indispensabile lavoro della manodopera migrante, a favore di un’immagine irreale, anacronistica e fintamente rassicurante made in Italy.

Cucina: storia naturale di una contraddizione

In un suo recente saggio (Cooked: A Natural History of Transformation, Penguin 2013), il giornalista americano Michael Pollan, già autore di diverse pubblicazioni sul comportamento alimentare e noto per le sue critiche all’industria agroalimentare (nonché per le sue posizioni ambigue su OGM e vegetarianismo), si concentra su quella che nel sottotitolo del libro definisce “una storia naturale della trasformazione”, ossia sull’aspetto materiale di quella collezione di processi che definiscono l’attività del cucinare e che, per dirla con l’autore, “mediano tra natura e cultura”, ossia trasformano attraverso l’elaborazione umana la materia prima naturale in un più o meno sofisticato prodotto culturale. Un tema complesso e di indubbio interesse antropologico, già affrontato da Lévi-Strauss nelle sue Mythologiques e in particolare ne Il cotto e il crudo, dove la trasformazione della materia prima in cibo cotto viene analizzata nel suo valore “culturale” che permette all’uomo, attraverso il passaggio cruciale del dominio sull’uso del fuoco, di divenire un essere socializzato, capace di mediazione e di adottare regole sociali. La cucina diventa così un campo di studio per l’analisi delle strutture sociali.

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Vi è però, in questo ambito, almeno un aspetto che vale la pena di considerare separatamente. Nella prefazione al libro, Pollan ricorda come la sua indagine sui processi fondamentali di cottura del cibo lo abbia portato a indagare su quello che definisce il “paradosso culinario”: mentre da una parte le statistiche dimostrano chiaramente che la nostra civiltà spende sempre meno tempo nel cucinare (guidati in questa tendenza, senza grande sorpresa, dagli Stati Uniti), dall’altra parte si spende sempre più tempo a parlarne, a leggerne, a guardare show televisivi a tema e ad affollare i ristoranti con cucine a vista, nuovo status symbol della ristorazione.

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Questa doppia tendenza comporta un aumento della domanda di prodotti alimentari che non richiedano grossi investimenti in termini di tempo nella loro preparazione finale, il che si traduce essenzialmente in un aumento del consumo di cibo industriale, che permette di esternalizzare alle piccole e grandi industrie il lavoro impiegato nella preparazione del pasto. Oltre alle conseguenze negative sulla nostra salute che ben conosciamo, questa tendenza ha effetti anche sull’istituzione del pasto e della sua preparazione. Perché, se prendiamo per buono Lévi-Strauss e consideriamo il cucinare come un processo essenziale di civilizzazione e socializzazione, ciò è nondimeno vero anche per quanto riguarda il consumo del pasto condiviso, per eccellenza occasione di conversazione e di condivisione. È per questo, fa notare Pollan, che la tipica tavola americana con i suoi cibi confezionati – e la conseguente soppressione della convivialità del pasto – incarna perfettamente quelle che definisce come “contraddizioni culturali del capitalismo”, ossia la tendenza di quest’ultimo a distruggere le forme sociali (la famiglia, in primis, ma anche la discussione “democratica” come valore fondante) su cui esso stesso si basa.

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Volendo scavare più a fondo, queste contraddizioni “culturali” ne rispecchiano altre più fondamentali. L’industrializzazione della produzione alimentare, ad esempio, inserisce l’attività culinaria in un processo produttivo inevitabilmente strutturato a catena e internamente organizzato secondo quel processo di divisione del lavoro che costituisce la spina dorsale del nostro sistema economico. Come riassunto nel fin troppo noto esempio dello spillo di Adam Smith, risulterebbe impossibile a una manifattura produrre ricchezza se lo stesso individuo dovesse estrarre il ferro dalla miniera per ricavarne il filo metallico necessario alla produzione di spilli. Così, il tempo sottratto alla preparazione di un pasto può essere agevolmente impiegato in altre attività produttive, dall’elaborazione di teorie economiche alla stesura di articoli per un blog, aumentando contestualmente la produttività sociale. E tuttavia è evidente, senza bisogno di scomodare Marx, come a questa supposta liberazione delle capacità produttive facciano da contraltare altrettante contraddizioni. Come ricorda Pollan, allo stesso modo in cui i limpidi e luminosi schermi su cui leggiamo e scriviamo sono in realtà prodotti grazie a inquinantissime centrali a carbone, i frutti rossi contenuti nei cereali della nostra colazione possono finire nella confezione e quindi nella nostra credenza solo grazie alle giornate passate con la schiena piegata da schiere di lavoratori agricoli.

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Ansel Adams, Farm Workers and Mt. Williamson (1953), campo di prigionia nippo-americano in California.

Anche la divisione del lavoro culinario, vale a dire, nasconde il suo lato oscuro. Si potrebbe anzi aggiungere che è la stessa divisione del lavoro che frappone quella barriera cognitiva che permette a noi fruitori finali del prodotto di poter ignorare le dinamiche reali in atto nel processo produttivo. Con conseguenze esiziali sul modo stesso in cui ci rapportiamo a quei prodotti, che ci appaiono sempre più reificati e sempre meno come il risultato dell’interazione umana con elementi naturali. Macellare personalmente una spalla di maiale, scrive Pollan, significa necessariamente essere messi di fronte al fatto che si sta macellando un grosso mammifero fatto di fasci di muscoli il cui scopo non è quello di nutrire noi. Difficile negare che questa esperienza, normalmente rimpiazzata dall’acquisto di un asettico taglio di carne in una vaschetta plastificata al supermercato, possa cambiare in maniera sostanziale il nostro modo di vedere il pranzo domenicale. Non è un caso che questo argomento sia uno dei più forti e uno dei più ricorrenti nelle battaglie antispeciste, poiché, per dirla con Ralph Waldo Emerson, “hai appena cenato, e per quanto il mattatoio sia scrupolosamente celato alla vista dalla grazia della lontananza, la complicità rimane”.

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Ma nella “fine dell’attività culinaria” giace anche un’altra contraddizione, legata agli aspetti più patriarcali del nostro ordinamento sociale. L’esternalizzazione della produzione alimentare sembra infatti aver portato un avanzamento in termini di civiltà nella misura in cui le donne possono uscire dalle cucine in cui sono state relegate per secoli dal loro ruolo di “angelo del focolare” con l’unico sostanziale compito di gestire l’ambiente domestico e sfamare la famiglia, ruolo che oggi sembra apparire sorprendentemente inattuale. Se le cose stanno davvero così, verrebbe allora da chiedersi per quale ragione questa divisione sessuale del lavoro abbia potuto essere imposta per secoli. Secondo la scienziata politica femminista Janet A. Flemming, ad esempio, una delle ragioni è da ricercarsi nella radici squisitamente materiali e sensoriali dell’attività culinaria: la manipolazione del cibo riguarda essenzialmente l’uso del tatto, dell’olfatto e del gusto, tradizionalmente considerati meno nobili della vista e dell’udito, associati alla dimensione della contemplazione. Così, in buona parte della tradizione filosofica, religiosa e letteraria il cibo è stato associato alla sfera corporale, ferina e istintuale, caratteristiche che in una cultura sessista vengono generalmente attribuite all’universo femminile. Ma se questa divisione sessuale del lavoro è stata davvero superata, perché ci appare ancora oggi a dir poco inappropriata quella campagna pubblicitaria lanciata negli anni ’70 da KFC, dove un manifesto pubblicitario che raffigurava il caratteristico secchiello di pollo fritto era accompagnato dalla scritta “La liberazione della donna”? Non solo, verrebbe da dire, per la discutibile associazione tra il non cucinare (anzi, tra il consumare polli da batteria acquistati da una delle catene di fast food più criticate al mondo) e la pretesa di una qualche forma di avanzamento sociale. E nemmeno per il fatto che una parte essenziale della sfera privata quale è il pasto viene in questo modo subappaltata a una multinazionale del take away. Ciò che vi è in profondità è un paradosso ancora più inquietante: come i dati mostrano, una gran parte delle donne che oggi sono uscite dalle cucine di casa per entrare nel mondo del lavoro sono in realtà impiegate nella produzione alimentare, cucinando per le altre famiglie nel tempo sottratto a cucinare per la propria. Sembrerebbe che il supposto superamento dei ruoli di genere sia tutt’altro che un dato di fatto. D’altro canto, le pubblicità di prodotti alimentari si rivolgono ancora oggi quasi esclusivamente alle donne, segno che neppure la cultura sfacciatamente sessista che quella divisione di ruoli ha mantenuto può essere data per superata.

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KFC presenta: la serata libera della mamma.

Per Pollan, coerentemente con lo spirito del libro, queste contraddizioni parlano a favore dell’urgenza e dell’importanza della riappropriazione dell’attività culinaria sottraendola alla produzione industriale del cibo. Un fatto è certo: se le pratiche culturali riflettono delle contraddizioni sociali profonde e radicate, la cucina non sembra fare eccezione.

Su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Cucina “pop”, sperimentazione, ricerca, stile: l’“alta cucina” contemporanea cerca in tutti i modi una legittimazione nel campo artistico, eppure non sembra disposta ad abbandonare il pesante fardello di alcuni pregiudizi etici ed estetici che «l’arte d’oggi» rifiuta.
Intendiamo agitare le acque per far sì che l’“alta cucina” rispecchiandosi narcisisticamente in questo nuovo stagno fatichi a riconoscersi. Disossando una recente polemica culinaria tenteremo di smascherare alcune contraddizioni che stanno alla base di una distinzione un po’ artificiosa tra l’“alta” cucina e la restante, alla ricerca del minimo comune equivoco: su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Vernice di polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su tela. Collezione privata.
Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Serigrafia su tela. Collezione privata.

È di ottobre la polemica tra i due chef Massimo Bottura e Davide Oldani sulle «prospettive democratiche» dell’“alta cucina”. In questo breve ma interessante scambio i due cuochi prendono posizioni alternative in merito all’approccio personale alla cucina di avanguardia. In estrema sintesi Oldani difende la sua idea di cucina “pop”, affermando come nel suo ristorante (il D’O, San Pietro All’olmo, Mi) si faccia «alta cucina, buona cucina alla portata di tutti. […] Non adopero prodotti costosi proprio perché il mio progetto è arrivare a tante persone», mentre Bottura (Osteria Francescana, Modena) sostiene la necessità dei costi elevati per portare avanti la sua “alta cucina” di sperimentazione dettagliando l’infelice esempio di una macchina sportiva: «se vuoi comprare una Ferrari la puoi pagare come una 500? No. Ecco, la nostra cucina è una Ferrari».

Non entreremo nel merito della questione costi/qualità. Ciò che ci interessa è soprattutto come entrambi non abbiano alcun problema a definire la propria come “alta cucina”. Senza enfatizzare eccessivamente l’utilizzo specifico del termine da parte di Oldani/Bottura (in fin dei conti l’aggettivo “alta” è entrato nella prassi e nel linguaggio comune intorno alla cucina da stelle e forchette), è interessante notare la dissonanza tra questo sottaciuto e reiterato giudizio di valore (se c’è una cucina “alta” ce ne sarà evidentemente una “bassa”) e la ricerca costante di accostamenti con l’arte contemporanea, dove la distinzione alto/basso è oramai da tempo abbandonata.
Persino oggi che le avanguardie artistiche si danno come improponibili, qualunque istanza artistica che si definisse “alta”, verrebbe vissuta e descritta come un movimento di retroguardia, un tentativo anacronistico di difesa di un’estetica e di un’etica da Ancien Régime.

Tom Wesselmann, Still Life Number 36, Olio e collage su tela, New York, Whitney Museum of American Art
Tom Wesselmann, Still Life Number 36 (1964). Olio e collage su tela. New York, Whitney Museum of American Art.

Sia Oldani sia Bottura nel definire la propria cucina cercano spesso legami con l’arte contemporanea, ma non sono né gli unici né i primi a farlo, basti pensare al Pollock di Gualtiero Marchesi. Nel caso di Oldani questo tentativo è più palese, se infatti la sua cucina “pop” è tale in quanto letteralmente “popolare”, è lui stesso ad ammettere un legame con la corrente artistica nota soprattutto attraverso le opere di Andy Warhol, d’altro canto anche Bottura è solito accostare la sua ricerca a quella di diversi artisti contemporanei (qui ad esempio si parla di Lucio Fontana).
Tuttavia entrambi dimenticano che uno dei nodi centrali per l’arte contemporanea è stata la rottura degli schemi e delle strutture che volevano un’arte “alta”, nobile, museale, classica, moralmente elevata contrapposta a un’arte “bassa”, popolare, ingenua, sentimentale. È questa in effetti una rottura che si può far risalire ai pre-impressionisti ma che ha certamente caratterizzato e attraversato, pur nelle notevoli differenze degli approcci e delle poetiche, quasi tutta l’arte chiamata “contemporanea”.

Dal recupero degli oggetti quotidiani dei papiers collés di Picasso, Braque o Gris passando per Dada e per gli orinatoi di Duchamp, ogni oggetto quotidiano, anche il più triviale è potuto divenire arte. Se già nel Manifesto dei futuristi si volevano «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie» si potrebbe osservare oggi come le mura della cittadella dell’arte siano effettivamente crollate e la nobiltà artistica venga attribuita maggiormente attraverso il riconoscimento economico o sociale che non in rapporto ad un’epica, un’etica o un’estetica condivisa. L’artista si definisce tale nei rapporti di vita privata e professionale tra gli appartenenti alla sua cerchia e nella distinzione tra gli interni e gli estranei al circuito dell’arte pubblicamente riconosciuta e commerciata, non tanto a livello di stilemi, di sperimentazioni, di espressioni artistiche.

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Juan Gris, Tazze da tè (1914). Collage, olio e carboncino su tela. Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen.

Discorso simile si potrebbe fare in letteratura dove, come scriveva il critico tedesco Ulrich Schulz-Buschhaus (Considerazioni storiche sulla «Trivialliteratur», 1979), era il sistema letterario pre-borghese ad essere «retto da un peculiare paradigma assiologico formato dalla distinzione fra “letteratura alta” e “letteratura bassa”»:

La letteratura “alta” consisteva di generi che, in uno stile molto serio, nello stilus sublimis, grandis, ecc., trattavano fenomeni, temi, problemi che anche socialmente erano “alti”, fenomeni dunque che appartenevano alla “repräsentative Öffentlichkeit” (per parlare con Habermas) dell’aristocrazia: il governo, le armi, gli amori. Mi riferisco ai generi dell’epopea, della tragedia, dell’ode e così via. Da questi generi era escluso ogni possibile riferimento a fenomeni socialmente “bassi”, cioè alla vita borghese che è vita professionale e vita familiare. […] Il dominio delle “basses circonstances” formava invece i generi della letteratura “bassa”: certo tipo di novelle, i romanzi comici, le commedie, le varie forme della “poesia burlesca”. In questi generi «bassi» si ammettevano sì i fenomeni della realtà borghese, la vita professionale, la vita di famiglia, la “private Öffentlichkeit”.

Schulz-Buschhaus evidenzia infine come al giorno d’oggi

al vecchio ed esausto paradigma assiologico, che consisteva in una distinzione verticale tra letteratura alta e letteratura bassa, è sottentrato un nuovo paradigma: una distinzione – per così dire – orizzontale, storicista. […] Questo nuovo paradigma assiologico investe di sommo valore non più tutto ciò che è “alto”, ma tutto ciò che è nuovo; digrada non più quello che è “basso”, ma quello che è vecchio, schematico e convenzionale. Abbiamo così, nell’età borghese, una nuova scala di valori, una scala che tutt’oggi, anche se non ce ne rendiamo conto, regge i nostri giudizi letterari”.

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Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559). Olio su tavola. Vienna, Kunsthistoriches Museum.

In verità anche questa distinzione, che indossa le vesti di una vera e propria ossessione, traspare fortemente tra le righe della polemica Oldani/Bottura: la ricerca del prodotto nuovo, della nuova tecnica, il feticismo della sperimentazione, una costante contrapposizione tra il ripetitivo e l’originale, un’altra condizione-chiave sulla quale si avrà modo di tornare per approfondire una critica contemporanea del gusto in senso stretto. Per ora rileviamo come questa dicotomia, non problematica in cucina sia invece alla base di delle considerazioni degli artisti pop, la cui estetica Richard Hamilton definì «massificata, transitoria, facile, seriale, ingegnosa, sexy, suggestiva, commerciale». Siamo quindi molto lontani dall’idea di cucina “pop” e ben oltre l’idea di un’arte “alta”.

Giunti alla conclusione siamo in grado di osservare come ai due cuochi, ma ancor di più alla categoria ristretta e privilegiata che essi esprimono e soddisfano, sfugga qualcosa, la si potrebbe chiamare visione periferica, un modo di osservare le dinamiche nella loro globalità e complessità. Non mettendo in discussione, l’idea di “alta” cucina, rilanciandola anzi nella ricerca di improbabili padri nobili, in una visione edulcorata, anacronistica e un po’ snob dell’arte contemporanea essi non si avvedono (o scelgono di non avvedersi) che quella suggestione rivive nei loro progetti che pretendono antitetici. In realtà i due cuochi stanno proponendo solamente due diverse modalità di una cucina di élite, che si può quindi definire “alta” nella sola accezione possibile, quella classista.

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Claes Oldenburg, Pastry Case, 1 (1961-1962). Vernice a smalto su gesso in teca di vetro. New York, MoMA.

Dovrebbe infatti essere chiaro a questo punto che il concetto di “alta cucina” si fonda sull’illegittima sovrapposizione di categorie sociali e giudizi di valore; l’ambiguità dell’aggettivo “alta” confonde i due piani, ma, se il percorso fatto sin qui attraverso l’arte figurativa e la letteratura in cui Oldani e Bottura stessi ci hanno condotto restituisce l’anacronismo e l’illegittimità del paradigma valoriale alto/basso, qual è dunque l’opportunità di definire “alta” una cucina per pochi? Su cosa (o su chi) si innalza l’“alta” cucina?

Il vero significato del Ringraziamento

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Jennie Augusta Brownscombe, “Il primo Ringraziamento a Plymouth” (1914), olio su tela. Leida, Museo De Lakenhal.

Abbiamo ormai, è indubbio, una certa familiarità con il Giorno del Ringraziamento americano.
A pensarci bene, nella nostra mente si affastellano immagini cinematografiche di convivialità (o di comica incomprensione) familiare svolte intorno a enormi tacchini supinamente farciti.
Sulla scorta di alcune feste commercialmente comandate introdotte con successo nel corso degli ultimi anni, assistiamo oggi in Italia alla moltiplicazione delle iniziative giocose (party, brunch e quant’altro) e degli articoli di costume in occasione del Thanksgiving Day.
Basta una breve ricerca su Google per imbattersi in fantasiosi programmi di “serate a stelle e strisce” e in manuali e “istruzioni per l’uso” su come approcciarsi, gastronomicamente, musicalmente, emotivamente a questa nuova festa.

In questo senso l’Italia si dimostra particolarmente ricettiva. Un po’ perché in fondo il Thanksgiving Day americano è facilmente assimilabile – e probabilmente è proprio qui, oltre che nella celebrazione dei Padri Pellegrini o nella mitopoiesi della fondazione degli Stati Uniti d’America, che ne va ricercata l’origine – alle tradizionali Feste del Ringraziamento o alle più profane Feste del raccolto, residui, talvolta ancora vitali, di un’Italia cattolica e contadina che a loro volta affondavano le radici in un denso calendario di festività romane.
Un po’ perché le provincie dell’Impero sono inevitabilmente attratte da ciò che avviene nella Capitale. Non è questa la sede per esaurire il corposo argomento ma non è difficile scorgere nell’attenzione mediatica crescente una tappa di questo percorso.

Meno noto ma non meno interessante (e contraddittorio) è il protocollo delle celebrazioni americane per il Thanksgiving Day. Non tutti sanno che alcuni giorni prima del Giorno del Ringraziamento alla Casa Bianca si svolge la tradizionale cerimonia della grazia presidenziale a due tacchini, nota come “National Thanksgiving Turkey Presentation”. Questo rito risale al 1963 quando John Fitzgerald Kennedy decise di non cucinare il tacchino che veniva tradizionalmente donato al Presidente dalla National Turkey Federation.
Dal 1989 uno dei tacchini graziati apre la parata sulla Main Street di Disneyland, poi entrambi vengono trasferiti nel ranch di Frontierland (una delle attrazioni, a tema Western, del parco divertimenti). A partire dal 2005 il trasferimento da Washington a Disneyland (LA) avviene su un volo di prima classe della United Airlines, mentre dal 2003 i cittadini americani possono votare sul sito della Casa Bianca il nome da assegnare ai due tacchini.

L’articolo che segue è apparso per la prima volta su Unemployed Negativity, il blog del filosofo americano Jason Read. Qui l’originale.

Obama concede la grazia presidenziale al tacchino "Courage", nel 2011. © Alex Wong/Getty Images
Obama concede la grazia presidenziale al tacchino “Courage”, nel 2011. © Alex Wong/Getty Images.

Il vero significato del Ringraziamento

di Jason Read

Ogni anno, almeno da un certo momento alla metà del secolo scorso in poi, il Presidente degli Stati Uniti concede la grazia a un tacchino. La cerimonia, che potrebbe essere descritta come un esempio di kitsch sovrano, riceve copertura mediatica divenendo parte del generale pastone festivo insieme ai nuovi carri allegorici nella parata del Ringraziamento dei grandi magazzini Macy’s e ai vari “cosa fare con gli avanzi della festa”.

C’è qualcosa di così evidentemente assurdo in questo rituale che è quasi inutile sottolinearlo. C’è ovviamente la questione della colpa, di per quale crimine i tacchini vengano mai graziati, a parte la sventura di essere venuti al mondo come tacchini da allevamento. C’è però anche una simmetria tra la grazia presidenziale al tacchino e la festa in generale. Il tacchino viene risparmiato appena prima che altri milioni vengano cucinati in un massiccio consumo di un’unica specie: un simbolo idilliaco di pace tra l’uomo e la bestia appena prima dell’autentica mattanza. Il Giorno del Ringraziamento dovrebbe essere la celebrazione di una pacifica cooperazione tra i coloni e i Nativi Americani: come sappiamo tutti, questa pacifica celebrazione, se mai è esistita, ha preceduto un genocidio. Ciascun rituale mette in scena un mondo giusto che tutti sappiamo essere una menzogna.

Rimane però la questione di che cosa accada a questi tacchini dopo che vengono risparmiati. Ho trovato questa dichiarazione in The Thanksgiving Turkey Pardon, The Death of Teddy’s Bear, and the Sovereign Exception of Guantánamo [La grazia ai tacchini del Ringraziamento, la morte di Teddy’s Bear, e l’eccezione sovrana di Guantánamo] di Magnus Fiskesjö:

Di questi volatili si dice, secondo la proverbiale formuletta, che vissero per sempre felici e contenti. In realtà però essi vengono generalmente ammazzati entro un anno e rimpiazzati da dei sostituti. Ciò va avanti anno dopo anno. I volatili prescelti vengono ammazzati perché sono stati manipolati e riempiti di ormoni al punto da essere inadatti per ogni altro scopo che la loro macellazione e il loro consumo. Sono tacchini ad avanzamento veloce. Gli allevatori di tacchini presidenziali hanno spiegato che molti soccombono abbastanza presto per patologie alle articolazioni – le loro gracili articolazioni semplicemente non possono sopportare il peso dei loro corpi accresciuti artificialmente. I sopravvissuti più robusti possono avere un po’ più di un anno. Ma alla fine viene sempre posta fine alle loro sofferenze. Essi vengono quindi seppelliti in un cimitero presidenziale dei tacchini – il significato rituale del quale sarebbe da esplorare (possa essere rinvenuto dagli archeologi del futuro!).

La ragione per cui questi tacchini sono così poco adatti alla vita in libertà è che essi vengono forniti dalla National Turkey Federation. Sono prodotti di fattorie industriali, allevati per ingrassare rapidamente piuttosto che per vivere a lungo. Molto si potrebbe aggiungere riguardo al fatto che gli interessi della corporate lobby surclassino la simbologia della cerimonia, rendendo addirittura la grazia presidenziale una menzogna nella menzogna. Viene tutto così sovradeterminato, un tacchino di vuoto simbolismo con doppio ripieno di autorità sovrana e potere corporativo. Tuttavia, la mia mente rimane ancorata a quel cimitero di (quelle che immagino essere) tombe non contrassegnate dove i volatili vanno a finire, incapaci di sopportare il peso della loro presunta libertà. Sono creature progettate per la gabbia, e nessun decreto presidenziale può cambiare ciò. Sì, questa festa simboleggia la nazione.

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Jason Read è professore associato di filosofia all’Università del Southern Maine, Portland. Il suo libro, The Micro-Politics of Capital (SUNY Press 2003, ora disponibile anche in formato ebook), non ancora tradotto in italiano, è un caso editoriale.

Eels, Pie, and Mash: l’East End di Londra e la cultura delle anguille

Eel-Pie-and-Mash

Siamo abituati a conoscere l’anguilla, fritta o in umido, come uno dei più rappresentativi elementi della tradizione natalizia del sud Italia o, come a Comacchio, consumata durante tutta la stagione, arrostita alla brace. Oltremanica, invece, l’anguilla ha una tradizione particolare di cucina povera e popolare, indissolubilmente legata alla storia e alla cultura della zona di cui è tipica, l’East End di Londra.

Situato sulla sponda nord del Tamigi, delimitata a ovest dalla city e ad est dal fiume Lea, l’East End di Londra non ha una definizione geografica ufficiale, sviluppandosi continuamente al ritmo dell’espansione dell’intera metropoli, dettato inizialmente dalla rivoluzione industriale, che ha trovato sul fiume Lea la sede delle principali manifatture londinesi, e poi da successive ondate di migrazione dalle colonie e dalla sempre crescente speculazione immobiliare, che determinando un aumento vertiginoso degli affitti hanno spinto molta gente a spostarsi verso la periferia orientale, estendendo i confini della zona fino a Dagenham.

Paul Trevor, Officina di carpenteria. Brick Lane, 1977. © 2007 Paul Trevor.
Paul Trevor, Officina di carpenteria. Brick Lane, 1977. © 2007 Paul Trevor.

Nella storia dell’East End – e nella nostra storia di anguille – ha però giocato un ruolo da indiscusso protagonista il vento che soffia nella capitale da sud-ovest, le tracce della cui azione sono visibili sulle facciate sud e ovest della cattedrale di St. Paul, sbiancate dalla pioggia battente ed erose dai detriti trasportati dal vento. È questo vento che, portando con sé i fumi delle prime ciminiere, ha caratterizzato fin dal ‘600 l’ovest di Londra come una zona relativamente poco inquinata, trasformandola nell’appetibile zona residenziale il cui carattere mantiene oggi più che mai. L’est di Londra, al contrario, cominciò ad ospitare le abitazioni più a buon mercato in cui potevano risiedere gli operai dei docks, definendosi come la zona operaia per eccellenza. Prima che le vicende di Jack lo Squartatore scatenassero la fantasia dei giornalisti, alimentando la fama dell’East End come zona malfamata (tanto che Jack London la definì senza mezzi termini “l’abisso”), quel lembo di terra compreso tra il Tower Bridge e la sponda ovest del fiume Lea era il cuore pulsante dell’industria londinese, con la sua concentrazione di tintorie, industrie chimiche e produttori di letame, manifatture di colla e di paraffina, fabbriche di vernice e concimi vari. L’identità operaia della zona era così forte da attrarre attivisti politici da tutta la nazione e non solo. Qui aveva sede il Circolo degli Anarchici frequentato da Malatesta e Kropotkin e visitato in più occasioni da Lenin. Qui, nel 1936, l’Unione britannica dei fascisti di Oswald Mosley fu sbaragliata durante una guerriglia urbana che divenne nota come “battaglia di Cable Street”, dal nome della strada di Whitechapel in cui gli antifascisti eressero le barricate per impedire la marcia antisemita.

Battaglia di Cable Street
Battaglia di Cable Street (1936).

Tale identità operaia trovava corpo nello stereotipo del cockney, l’East Ender popolare dalla caratteristica parlata quasi priva di consonanti e con le vocali arrotate. L’accento cockney diveniva anzi una vera e propria lingua grazie al suo rhyming slang, un complicato dialetto in cui le parole vengono sostituite da altre che fanno rima con le prime – come nella famosa espressione “apples and pears”, che sostituisce il più ovvio “stairs” – il cui codice veniva appreso col latte materno da coloro che, come vuole la tradizione, sono nati dove si possono sentire le campane della chiesa di St Mary-le-Bow appena dietro a St Paul, ma che doveva invece risultare incomprensibile alle orecchie indiscrete della polizia che indagava sui traffici che avvenivano lungo i docks.

Paul Trevor, Mercato domenicale. Cheshire street, 1976. © 2007 Paul Trevor.
Paul Trevor, Mercato domenicale. Cheshire Street, 1976. © 2007 Paul Trevor.

Qualcuno ha suggerito che il termine “cockney” derivi dal latino coquina, ad indicare il brulicare di venditori di cibo da strada che ha caratterizzato la vita londinese fin dagli albori. L’etimologia più probabile sembra però da ricercarsi nell’espressione “uovo di gallo” (cock’s egg, o, in inglese medievale, coken ey) che indicava le uova dalla forma inusuale. Sia come sia, le radici culinarie della parola ben testimoniano il ruolo della cultura gastronomica come il tratto più distintivo dell’identità dell’East End. Se il pasticcio di carne in crosta, nelle sue varianti regionali, è un simbolo della cucina popolare britannica fin dalle sue origini, per la sua agibilità ad essere trasportato lungo le rotte fluviali e marittime che assicuravano l’attività commerciale dell’isola, in epoche in cui la carne scarseggiava era il Tamigi stesso a fornire la materia prima. Ostriche ed altri molluschi facilmente accessibili alla pesca venivano da sempre venduti al dettaglio lungo tutte le strade di Londra, per non parlare del piatto nazionale, il fish and chips, a base di filetto di merluzzo, di haddock (simile al merluzzo e diffusissimo nelle aree atlantiche, specialmente in Scozia), o più raramente di platessa.

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Jellied eels, in porzione da asporto.

Quando però l’inquinamento industriale raggiunse livelli che hanno scolpito per sempre l’immaginario della città, fu l’anguilla a ritagliarsi un posto di rilievo nella dieta cockney. Una delle poche specie capace di resistere agli alti livelli di inquinamento da scarichi industriali delle acque del Tamigi, con le sue carni grasse l’anguilla forniva l’apporto nutritivo necessario a sostenere le lunghe ore di lavoro manuale negli stabilimenti portuali. In una cucina prevalentemente povera e popolare, l’anguilla veniva consumata senza particolari sofisticazioni, tagliata a tocchi e bollita in una mistura di acqua e aceto aromatizzati e poi lasciata a raffreddare nel brodo di cottura che, grazie al collagene presente nelle proteine rilasciate dall’anguilla, si solidifica dando origine alla caratteristica “anguilla in gelatina” (jellied eel), da consumare al cucchiaio, anche in versione “da passeggio”. In alternativa, le anguille potevano essere stufate in un semplice brodo con l’aggiunta di prezzemolo (liquor), che dava sapore e colore al piatto, altrimenti piuttosto scarno. In questa versione, l’accompagnamento principe era il purè di patate (mash), particolarmente adatto a stemperare il brodo verde. Il piatto completo prevedeva perciò, a seconda della disponibilità, anguilla, pasticcio di carne e purè, Eel, pie and mash (nella foto in apertura dell’articolo), che dava anche il nome alle rustiche tavole calde in cui veniva servito. Spesso però era l’anguilla stessa a sostituire l’agnello o il manzo come ripieno della sfoglia del pasticcio, cosa che peraltro permetteva anche la vendita in strada e all’aperto proteggendo al contempo l’anguilla dalle polveri e dalla fuliggine provenienti dalle ciminiere delle fabbriche che popolavano la zona.

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L’interno di “M. Manze’s”, il più antico eel & pie shop di Londra. © 2013 Oli Scarff.

Oggi, l’anguilla è quasi scomparsa dalle acque del Tamigi e la classe operaia bianca londinese non esiste più, spazzata via dalla riconversione economica della città che ha attirato nuove ondate di migrazione dalle ex-colonie, trasformando quella che una volta era una zona operaia in un brulicante melting pot di etnie con il loro apporto di ingredienti esotici e cultura gastronomica finora sconosciuta. La cucina indiana, in particolare, ha già ridefinito quella inglese, venendo assimilata nell’identità nazionale come già era stato per il tè ai tempi dell’Impero Britannico. Insieme alla cultura cockney, si sono diradati fino a scomparire anche i tradizionali Pie and mash shop, con le loro caratteristiche pareti in ceramica decorata bianca e verde, gli spartani banchi di legno e i tavoli di marmo, le vasche metalliche in cui contenere anguilla e gelatina e la grossa marmitta per il purè. Fred Cooke, proprietario di uno dei più famosi pie and mash shop di Londra, ha chiuso nel 1997 il suo locale di Dalston aperto decenni prima dal nonno, lasciando il posto a un anonimo ristorante cinese che ha mantenuto un bizzarro connubio tra cucina orientale e arredamento inglese tradizionale.

Robert Cooke, quarta generazione, davanti al suo “F. Cooke” di Broadway Market.

A Broadway Market, frequentatissimo dagli hipster, permane ancora un ristorante a insegna “F. Cooke” che la sera si trasforma spesso in un locale con tanto di musica e luci al neon. A servire ancora anguille secondo la ricetta originale, sotto lo Shard di Renzo Piano, è “M. Manze’s”, aperto al giro del secolo scorso dall’italiano Michele Manze giunto a Londra in una precedente ondata migratoria, aggiudicandosi il primato di più antica eel and pie house di Londra con tanto di targa commemorativa ufficiale destinata ai luoghi più significativi del Regno Unito. Sotto la placca blu, campeggia però un cartello scritto a computer: “Ci dispiace informarvi che la disponibilità di anguille è estremamente bassa, e di conseguenza i prezzi aumentano continuamente. È possibile che la fornitura di anguille scompaia completamente nel prossimo futuro.”

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