Le condizioni di esistenza del Parmigiano

Vendita di formaggio (miniatura), incisione dal <em>Tacuinum Sanitatis</em>, <em>Codex Vindobonensis Series Nova</em> 2644, Österreische Nationalbibliothek, Vienna.
Vendita di formaggio (miniatura), incisione dal Tacuinum Sanitatis, Codex Vindobonensis Series Nova 2644, Österreische Nationalbibliothek, Vienna.

Quando ci si avvicina al cibo ci si espone a una tentazione particolare, quella di pensarlo in astratto, di estrapolarlo dal suo contesto e degustarne quindi forma e sapore dandone per scontata l’esistenza, accettando con leggerezza una mitologia artificiosa spesso riconducibile unicamente a delle trovate pubblicitarie o a labili suggestioni di una tradizione tutta da verificare.

Si commette così l’errore di avvicinarsi al cibo con indifferenza. La stessa indifferenza che porta il consumatore a non curarsi della stagionalità dei prodotti e della sostenibilità delle colture e pretendere dunque di ritrovare in inverno le stesse zucchine che trovava in estate.

Una delle ragioni che animano questo blog è il tentativo di scorgere nel cibo tutta la complessità che lo caratterizza, ripensandolo in maniera non essenzialista. Si svela così una merce complessa, in grado di riflettere i più diversi aspetti sociali e culturali. Se si ricerca questo tipo di profondità, si noterà come il cibo si trasformi in potentissimo strumento di osservazione della realtà, una materia prima o un semi-lavorato dall’apparenza banale nella quale si annodano invece i fili di un discorso che è insieme reale e politico.

Rileggendo i processi di produzione di uno tra i più nobili e rinomati prodotti dell’industria casearia italiana, il Parmigiano Reggiano, finiscono per essere messi in discussione non solo molti dei luoghi comuni sul made in Italy e sulla tradizione gastronomica, ma anche una lunga serie di considerazioni politiche fondate su una difesa disinformata dei valori identitari e sui “pericoli” legati all’immigrazione.

Da tempo ormai la comunicazione pubblicitaria legata al Parmigiano Reggiano è fortemente orientata a trasmettere l’idea rassicurante di una secolare genealogia artigianale, di un sapere territoriale e tradizionale. “Dietro ogni scaglia di Parmigiano Reggiano ci sono quasi mille anni di storia e di gesti ripetuti”, questo raccontano le operose mani (dalla perfetta manicure) del nonno, padre di famiglia, artificiosamente artigiano che tramanda usi e costumi della degustazione del Parmigiano alla giovane nipote (“mi ha detto che lo fanno a mano, ogni mattina”).

Non si avvertono rotture, il Parmigiano “è unico”, ed è sempre quello, lo stesso che citava Boccaccio nel Decameron:

“in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan le genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva” (Boccaccio, Decameron, Giornata VIII, novella 3, 9).

Lo stesso dei medievali monaci benedettini di San Giovanni e di San Prospero o dei monaci cistercensi di San Martino di Valserena e Fontevivo. E ancora lo stesso dei sogni di fortuna del Giannettino, di Collodi, “Se vinco un terno – diceva agli amici – voglio comperare una villa, un palazzo, quattro cavalli scappatori, una bella galleria di quadri e una forma intera di cacio parmigiano” (Carlo Collodi, Giannettino, Milano, Barion, 1926).

Sarebbe questa stessa manualità, questo continuum nella tradizione, a riprodurre oggi il “Re dei formaggi” e a garantirne l’unicità, a riportalo quotidianamente nei supermercati, ad intagliarlo “a scaglie” nei buffet dei nostri aperitivi, pronto per essere degustato. Semplice e lineare.

O forse no. Forse sono anche altre le condizioni di (r)esistenza del Parmigiano Reggiano nel 2014, forse i valori di continuità, tradizione, artigianalità e unicità non bastano a portare a compimento il ciclo della produzione del Parmigiano, che, questa sì, permette agli allevatori e alle aziende del territorio di sopravvivere o di produrre utili. E come hanno, tra i primi, rilevato gli studenti della web tv Cortocircuito di Reggio Emilia, sono condizioni che ci interrogano sull’Italia di oggi, sulle evoluzioni della società contemporanea.

 

Immaginate di guidare lungo la strada provinciale 42 che collega Guastalla a Carpi. Facendo attenzione a mantener dritta la guida e sperando di non trovare il “nebbione” vedreste sfilare intorno a voi diversi caseifici; se decideste di fermarvi in uno dei numerosi spacci adiacenti vi potrebbe capitare con una buone probabilità di essere serviti non da Cesira o Iolanda ma da Rameshwari o da Shaila e sentireste forse una declinazione particolare di quella erre arrotata del parlato reggiano. Superato il primo momento di straniamento potreste a questo punto soprassedere, pagare uscire e proseguire oltre, arrivare a Carpi e riconnettervi con l’autostrada, continuare il vostro viaggio e al ritorno decantare agli amici le qualità di quel parmigiano preso là dove lo fanno accennando, magari con ironia, a quell’incontro inaspettato. Se invece decideste di sostare nel borgo agricolo di Novellara, il paese di Augusto Daolio, che sta proprio nel mezzo della provinciale 42, non tardereste poi molto a darvi spiegazione di quell’incontro. Tra i capannoni della zona industriale di Novellara sorge infatti il Gurdwara Singh Sabha, il maggiore tempio sikh d’Europa dopo quello di Londra.

L’Emilia-Romagna è la seconda regione italiana per presenza di cittadini indiani residenti dopo la Lombardia. La loro presenza si concentra nelle provincie di Reggio Emlia, Parma, Modena e Piacenza. A Novellara gli indiani arrivarono verso la fine degli anni Ottanta, molti di loro provenivano dal Punjab, la regione indiana dove il sikhismo è più praticato, e la loro comunità conta oggi circa 25mila persone.

Il Dossier immigrazione 2012 della Caritas ha stimato che il numero complessivo degli immigrati regolari abbia di poco superato i 5 milioni di persone alla fine del 2011. Gli immigrati dall’Asia, che alla fine del 2010 hanno inciso per il 12,7% sull’insieme dei residenti stranieri nell’Unione Europea, nell’anno successivo sono arrivati ad incidere in Italia per 6 punti percentuali in più, per un totale di 924.443 soggiornanti. In particolare, l’Italia è lo Stato membro che nell’UE accoglie le collettività più numerose di cinesi (277.570 soggiornanti nel 2011), filippini (152.382), bangladesi (106.671) e srilankesi (94. 577), mentre è il secondo Stato per quanto riguarda la presenza di indiani (145.164) e pakistani (90.185).

L’esistenza del Parmigiano Reggiano nel 2014 si lega inesorabilmente alla loro presenza e al loro lavoro. Un articolo apparso su TM News nell’ottobre del 2011 racconta ad esempio la storia di Manijt Singh. “arrivato in Italia da sette anni, lavora nella Formaggeria Cacciali. Il lavoro è duro, si inizia alle 6 del mattino e si termina alle 20 con una pausa di qualche ora, per produrre 10 forme al giorno. Graziano Cacciali fa il Parmigiano da quando aveva 12 anni: è stato lui a insegnare il mestiere a Manijt. La pazienza e la calma dei Sikh, insieme al rispetto delle vacche, ne fanno i lavoratori ideali per produrre il formaggio: in questa cooperativa, che conta oltre 1.100 capi di bestiame, sono la metà dei lavoratori. Un contributo fondamentale alla produzione di 3 milioni di forme di Parmigiano all’anno, per un mestiere che rischiava di scomparire, come spiega Stefano Gazzini”. Qui il video:

 

Ripensando a quell’immagine un po’ stantia di Parmigiano tradizionale, artigianale e familiare che ci viene quotidianamente riproposta, non si potranno non notare ora le pesanti contraddizioni che la attraversano. Se il Parmigiano Reggiano continua ad esistere è infatti, almeno in parte, merito dei Sikh di Novellara e del lavoro dei migranti, che attraverso la loro professionalità hanno saputo incontrare la domanda di manodopera sul territorio emiliano per il quale rappresentano una ricchezza sia in termini economici (il bilancio costi/benefici dell’immigrazione per le casse statali registra un +1,7 miliardi di euro) sia in termini culturali, garantendo la sopravvivenza di un prodotto tradizionale che rischiava altrimenti di scomparire. Una ricchezza che sarebbe giusto sottolineare, un bagaglio di conoscenze reali, pratiche e umane che vanno a sommarsi a quelle tradizionali e non certo ad annacquarle. A discapito del titolo dell’ultima campagna pubblicitaria legata al Parmigiano, intitolata “sono le differenze a renderlo unico”, rileviamo come le “differenze” vengano invece quotidianamente occultate e venga negato ogni riconoscimento all’indispensabile lavoro della manodopera migrante, a favore di un’immagine irreale, anacronistica e fintamente rassicurante made in Italy.

Su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Cucina “pop”, sperimentazione, ricerca, stile: l’“alta cucina” contemporanea cerca in tutti i modi una legittimazione nel campo artistico, eppure non sembra disposta ad abbandonare il pesante fardello di alcuni pregiudizi etici ed estetici che «l’arte d’oggi» rifiuta.
Intendiamo agitare le acque per far sì che l’“alta cucina” rispecchiandosi narcisisticamente in questo nuovo stagno fatichi a riconoscersi. Disossando una recente polemica culinaria tenteremo di smascherare alcune contraddizioni che stanno alla base di una distinzione un po’ artificiosa tra l’“alta” cucina e la restante, alla ricerca del minimo comune equivoco: su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Vernice di polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su tela. Collezione privata.
Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Serigrafia su tela. Collezione privata.

È di ottobre la polemica tra i due chef Massimo Bottura e Davide Oldani sulle «prospettive democratiche» dell’“alta cucina”. In questo breve ma interessante scambio i due cuochi prendono posizioni alternative in merito all’approccio personale alla cucina di avanguardia. In estrema sintesi Oldani difende la sua idea di cucina “pop”, affermando come nel suo ristorante (il D’O, San Pietro All’olmo, Mi) si faccia «alta cucina, buona cucina alla portata di tutti. […] Non adopero prodotti costosi proprio perché il mio progetto è arrivare a tante persone», mentre Bottura (Osteria Francescana, Modena) sostiene la necessità dei costi elevati per portare avanti la sua “alta cucina” di sperimentazione dettagliando l’infelice esempio di una macchina sportiva: «se vuoi comprare una Ferrari la puoi pagare come una 500? No. Ecco, la nostra cucina è una Ferrari».

Non entreremo nel merito della questione costi/qualità. Ciò che ci interessa è soprattutto come entrambi non abbiano alcun problema a definire la propria come “alta cucina”. Senza enfatizzare eccessivamente l’utilizzo specifico del termine da parte di Oldani/Bottura (in fin dei conti l’aggettivo “alta” è entrato nella prassi e nel linguaggio comune intorno alla cucina da stelle e forchette), è interessante notare la dissonanza tra questo sottaciuto e reiterato giudizio di valore (se c’è una cucina “alta” ce ne sarà evidentemente una “bassa”) e la ricerca costante di accostamenti con l’arte contemporanea, dove la distinzione alto/basso è oramai da tempo abbandonata.
Persino oggi che le avanguardie artistiche si danno come improponibili, qualunque istanza artistica che si definisse “alta”, verrebbe vissuta e descritta come un movimento di retroguardia, un tentativo anacronistico di difesa di un’estetica e di un’etica da Ancien Régime.

Tom Wesselmann, Still Life Number 36, Olio e collage su tela, New York, Whitney Museum of American Art
Tom Wesselmann, Still Life Number 36 (1964). Olio e collage su tela. New York, Whitney Museum of American Art.

Sia Oldani sia Bottura nel definire la propria cucina cercano spesso legami con l’arte contemporanea, ma non sono né gli unici né i primi a farlo, basti pensare al Pollock di Gualtiero Marchesi. Nel caso di Oldani questo tentativo è più palese, se infatti la sua cucina “pop” è tale in quanto letteralmente “popolare”, è lui stesso ad ammettere un legame con la corrente artistica nota soprattutto attraverso le opere di Andy Warhol, d’altro canto anche Bottura è solito accostare la sua ricerca a quella di diversi artisti contemporanei (qui ad esempio si parla di Lucio Fontana).
Tuttavia entrambi dimenticano che uno dei nodi centrali per l’arte contemporanea è stata la rottura degli schemi e delle strutture che volevano un’arte “alta”, nobile, museale, classica, moralmente elevata contrapposta a un’arte “bassa”, popolare, ingenua, sentimentale. È questa in effetti una rottura che si può far risalire ai pre-impressionisti ma che ha certamente caratterizzato e attraversato, pur nelle notevoli differenze degli approcci e delle poetiche, quasi tutta l’arte chiamata “contemporanea”.

Dal recupero degli oggetti quotidiani dei papiers collés di Picasso, Braque o Gris passando per Dada e per gli orinatoi di Duchamp, ogni oggetto quotidiano, anche il più triviale è potuto divenire arte. Se già nel Manifesto dei futuristi si volevano «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie» si potrebbe osservare oggi come le mura della cittadella dell’arte siano effettivamente crollate e la nobiltà artistica venga attribuita maggiormente attraverso il riconoscimento economico o sociale che non in rapporto ad un’epica, un’etica o un’estetica condivisa. L’artista si definisce tale nei rapporti di vita privata e professionale tra gli appartenenti alla sua cerchia e nella distinzione tra gli interni e gli estranei al circuito dell’arte pubblicamente riconosciuta e commerciata, non tanto a livello di stilemi, di sperimentazioni, di espressioni artistiche.

teacups
Juan Gris, Tazze da tè (1914). Collage, olio e carboncino su tela. Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen.

Discorso simile si potrebbe fare in letteratura dove, come scriveva il critico tedesco Ulrich Schulz-Buschhaus (Considerazioni storiche sulla «Trivialliteratur», 1979), era il sistema letterario pre-borghese ad essere «retto da un peculiare paradigma assiologico formato dalla distinzione fra “letteratura alta” e “letteratura bassa”»:

La letteratura “alta” consisteva di generi che, in uno stile molto serio, nello stilus sublimis, grandis, ecc., trattavano fenomeni, temi, problemi che anche socialmente erano “alti”, fenomeni dunque che appartenevano alla “repräsentative Öffentlichkeit” (per parlare con Habermas) dell’aristocrazia: il governo, le armi, gli amori. Mi riferisco ai generi dell’epopea, della tragedia, dell’ode e così via. Da questi generi era escluso ogni possibile riferimento a fenomeni socialmente “bassi”, cioè alla vita borghese che è vita professionale e vita familiare. […] Il dominio delle “basses circonstances” formava invece i generi della letteratura “bassa”: certo tipo di novelle, i romanzi comici, le commedie, le varie forme della “poesia burlesca”. In questi generi «bassi» si ammettevano sì i fenomeni della realtà borghese, la vita professionale, la vita di famiglia, la “private Öffentlichkeit”.

Schulz-Buschhaus evidenzia infine come al giorno d’oggi

al vecchio ed esausto paradigma assiologico, che consisteva in una distinzione verticale tra letteratura alta e letteratura bassa, è sottentrato un nuovo paradigma: una distinzione – per così dire – orizzontale, storicista. […] Questo nuovo paradigma assiologico investe di sommo valore non più tutto ciò che è “alto”, ma tutto ciò che è nuovo; digrada non più quello che è “basso”, ma quello che è vecchio, schematico e convenzionale. Abbiamo così, nell’età borghese, una nuova scala di valori, una scala che tutt’oggi, anche se non ce ne rendiamo conto, regge i nostri giudizi letterari”.

carnevale
Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559). Olio su tavola. Vienna, Kunsthistoriches Museum.

In verità anche questa distinzione, che indossa le vesti di una vera e propria ossessione, traspare fortemente tra le righe della polemica Oldani/Bottura: la ricerca del prodotto nuovo, della nuova tecnica, il feticismo della sperimentazione, una costante contrapposizione tra il ripetitivo e l’originale, un’altra condizione-chiave sulla quale si avrà modo di tornare per approfondire una critica contemporanea del gusto in senso stretto. Per ora rileviamo come questa dicotomia, non problematica in cucina sia invece alla base di delle considerazioni degli artisti pop, la cui estetica Richard Hamilton definì «massificata, transitoria, facile, seriale, ingegnosa, sexy, suggestiva, commerciale». Siamo quindi molto lontani dall’idea di cucina “pop” e ben oltre l’idea di un’arte “alta”.

Giunti alla conclusione siamo in grado di osservare come ai due cuochi, ma ancor di più alla categoria ristretta e privilegiata che essi esprimono e soddisfano, sfugga qualcosa, la si potrebbe chiamare visione periferica, un modo di osservare le dinamiche nella loro globalità e complessità. Non mettendo in discussione, l’idea di “alta” cucina, rilanciandola anzi nella ricerca di improbabili padri nobili, in una visione edulcorata, anacronistica e un po’ snob dell’arte contemporanea essi non si avvedono (o scelgono di non avvedersi) che quella suggestione rivive nei loro progetti che pretendono antitetici. In realtà i due cuochi stanno proponendo solamente due diverse modalità di una cucina di élite, che si può quindi definire “alta” nella sola accezione possibile, quella classista.

pastrycase
Claes Oldenburg, Pastry Case, 1 (1961-1962). Vernice a smalto su gesso in teca di vetro. New York, MoMA.

Dovrebbe infatti essere chiaro a questo punto che il concetto di “alta cucina” si fonda sull’illegittima sovrapposizione di categorie sociali e giudizi di valore; l’ambiguità dell’aggettivo “alta” confonde i due piani, ma, se il percorso fatto sin qui attraverso l’arte figurativa e la letteratura in cui Oldani e Bottura stessi ci hanno condotto restituisce l’anacronismo e l’illegittimità del paradigma valoriale alto/basso, qual è dunque l’opportunità di definire “alta” una cucina per pochi? Su cosa (o su chi) si innalza l’“alta” cucina?