Su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Cucina “pop”, sperimentazione, ricerca, stile: l’“alta cucina” contemporanea cerca in tutti i modi una legittimazione nel campo artistico, eppure non sembra disposta ad abbandonare il pesante fardello di alcuni pregiudizi etici ed estetici che «l’arte d’oggi» rifiuta.
Intendiamo agitare le acque per far sì che l’“alta cucina” rispecchiandosi narcisisticamente in questo nuovo stagno fatichi a riconoscersi. Disossando una recente polemica culinaria tenteremo di smascherare alcune contraddizioni che stanno alla base di una distinzione un po’ artificiosa tra l’“alta” cucina e la restante, alla ricerca del minimo comune equivoco: su cosa si innalza l’“alta cucina”?

Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Vernice di polimeri sintetici e inchiostro serigrafico su tela. Collezione privata.
Andy Warhol, Five Coke Bottles (1962), Serigrafia su tela. Collezione privata.

È di ottobre la polemica tra i due chef Massimo Bottura e Davide Oldani sulle «prospettive democratiche» dell’“alta cucina”. In questo breve ma interessante scambio i due cuochi prendono posizioni alternative in merito all’approccio personale alla cucina di avanguardia. In estrema sintesi Oldani difende la sua idea di cucina “pop”, affermando come nel suo ristorante (il D’O, San Pietro All’olmo, Mi) si faccia «alta cucina, buona cucina alla portata di tutti. […] Non adopero prodotti costosi proprio perché il mio progetto è arrivare a tante persone», mentre Bottura (Osteria Francescana, Modena) sostiene la necessità dei costi elevati per portare avanti la sua “alta cucina” di sperimentazione dettagliando l’infelice esempio di una macchina sportiva: «se vuoi comprare una Ferrari la puoi pagare come una 500? No. Ecco, la nostra cucina è una Ferrari».

Non entreremo nel merito della questione costi/qualità. Ciò che ci interessa è soprattutto come entrambi non abbiano alcun problema a definire la propria come “alta cucina”. Senza enfatizzare eccessivamente l’utilizzo specifico del termine da parte di Oldani/Bottura (in fin dei conti l’aggettivo “alta” è entrato nella prassi e nel linguaggio comune intorno alla cucina da stelle e forchette), è interessante notare la dissonanza tra questo sottaciuto e reiterato giudizio di valore (se c’è una cucina “alta” ce ne sarà evidentemente una “bassa”) e la ricerca costante di accostamenti con l’arte contemporanea, dove la distinzione alto/basso è oramai da tempo abbandonata.
Persino oggi che le avanguardie artistiche si danno come improponibili, qualunque istanza artistica che si definisse “alta”, verrebbe vissuta e descritta come un movimento di retroguardia, un tentativo anacronistico di difesa di un’estetica e di un’etica da Ancien Régime.

Tom Wesselmann, Still Life Number 36, Olio e collage su tela, New York, Whitney Museum of American Art
Tom Wesselmann, Still Life Number 36 (1964). Olio e collage su tela. New York, Whitney Museum of American Art.

Sia Oldani sia Bottura nel definire la propria cucina cercano spesso legami con l’arte contemporanea, ma non sono né gli unici né i primi a farlo, basti pensare al Pollock di Gualtiero Marchesi. Nel caso di Oldani questo tentativo è più palese, se infatti la sua cucina “pop” è tale in quanto letteralmente “popolare”, è lui stesso ad ammettere un legame con la corrente artistica nota soprattutto attraverso le opere di Andy Warhol, d’altro canto anche Bottura è solito accostare la sua ricerca a quella di diversi artisti contemporanei (qui ad esempio si parla di Lucio Fontana).
Tuttavia entrambi dimenticano che uno dei nodi centrali per l’arte contemporanea è stata la rottura degli schemi e delle strutture che volevano un’arte “alta”, nobile, museale, classica, moralmente elevata contrapposta a un’arte “bassa”, popolare, ingenua, sentimentale. È questa in effetti una rottura che si può far risalire ai pre-impressionisti ma che ha certamente caratterizzato e attraversato, pur nelle notevoli differenze degli approcci e delle poetiche, quasi tutta l’arte chiamata “contemporanea”.

Dal recupero degli oggetti quotidiani dei papiers collés di Picasso, Braque o Gris passando per Dada e per gli orinatoi di Duchamp, ogni oggetto quotidiano, anche il più triviale è potuto divenire arte. Se già nel Manifesto dei futuristi si volevano «distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie» si potrebbe osservare oggi come le mura della cittadella dell’arte siano effettivamente crollate e la nobiltà artistica venga attribuita maggiormente attraverso il riconoscimento economico o sociale che non in rapporto ad un’epica, un’etica o un’estetica condivisa. L’artista si definisce tale nei rapporti di vita privata e professionale tra gli appartenenti alla sua cerchia e nella distinzione tra gli interni e gli estranei al circuito dell’arte pubblicamente riconosciuta e commerciata, non tanto a livello di stilemi, di sperimentazioni, di espressioni artistiche.

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Juan Gris, Tazze da tè (1914). Collage, olio e carboncino su tela. Düsseldorf, Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen.

Discorso simile si potrebbe fare in letteratura dove, come scriveva il critico tedesco Ulrich Schulz-Buschhaus (Considerazioni storiche sulla «Trivialliteratur», 1979), era il sistema letterario pre-borghese ad essere «retto da un peculiare paradigma assiologico formato dalla distinzione fra “letteratura alta” e “letteratura bassa”»:

La letteratura “alta” consisteva di generi che, in uno stile molto serio, nello stilus sublimis, grandis, ecc., trattavano fenomeni, temi, problemi che anche socialmente erano “alti”, fenomeni dunque che appartenevano alla “repräsentative Öffentlichkeit” (per parlare con Habermas) dell’aristocrazia: il governo, le armi, gli amori. Mi riferisco ai generi dell’epopea, della tragedia, dell’ode e così via. Da questi generi era escluso ogni possibile riferimento a fenomeni socialmente “bassi”, cioè alla vita borghese che è vita professionale e vita familiare. […] Il dominio delle “basses circonstances” formava invece i generi della letteratura “bassa”: certo tipo di novelle, i romanzi comici, le commedie, le varie forme della “poesia burlesca”. In questi generi «bassi» si ammettevano sì i fenomeni della realtà borghese, la vita professionale, la vita di famiglia, la “private Öffentlichkeit”.

Schulz-Buschhaus evidenzia infine come al giorno d’oggi

al vecchio ed esausto paradigma assiologico, che consisteva in una distinzione verticale tra letteratura alta e letteratura bassa, è sottentrato un nuovo paradigma: una distinzione – per così dire – orizzontale, storicista. […] Questo nuovo paradigma assiologico investe di sommo valore non più tutto ciò che è “alto”, ma tutto ciò che è nuovo; digrada non più quello che è “basso”, ma quello che è vecchio, schematico e convenzionale. Abbiamo così, nell’età borghese, una nuova scala di valori, una scala che tutt’oggi, anche se non ce ne rendiamo conto, regge i nostri giudizi letterari”.

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Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559). Olio su tavola. Vienna, Kunsthistoriches Museum.

In verità anche questa distinzione, che indossa le vesti di una vera e propria ossessione, traspare fortemente tra le righe della polemica Oldani/Bottura: la ricerca del prodotto nuovo, della nuova tecnica, il feticismo della sperimentazione, una costante contrapposizione tra il ripetitivo e l’originale, un’altra condizione-chiave sulla quale si avrà modo di tornare per approfondire una critica contemporanea del gusto in senso stretto. Per ora rileviamo come questa dicotomia, non problematica in cucina sia invece alla base di delle considerazioni degli artisti pop, la cui estetica Richard Hamilton definì «massificata, transitoria, facile, seriale, ingegnosa, sexy, suggestiva, commerciale». Siamo quindi molto lontani dall’idea di cucina “pop” e ben oltre l’idea di un’arte “alta”.

Giunti alla conclusione siamo in grado di osservare come ai due cuochi, ma ancor di più alla categoria ristretta e privilegiata che essi esprimono e soddisfano, sfugga qualcosa, la si potrebbe chiamare visione periferica, un modo di osservare le dinamiche nella loro globalità e complessità. Non mettendo in discussione, l’idea di “alta” cucina, rilanciandola anzi nella ricerca di improbabili padri nobili, in una visione edulcorata, anacronistica e un po’ snob dell’arte contemporanea essi non si avvedono (o scelgono di non avvedersi) che quella suggestione rivive nei loro progetti che pretendono antitetici. In realtà i due cuochi stanno proponendo solamente due diverse modalità di una cucina di élite, che si può quindi definire “alta” nella sola accezione possibile, quella classista.

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Claes Oldenburg, Pastry Case, 1 (1961-1962). Vernice a smalto su gesso in teca di vetro. New York, MoMA.

Dovrebbe infatti essere chiaro a questo punto che il concetto di “alta cucina” si fonda sull’illegittima sovrapposizione di categorie sociali e giudizi di valore; l’ambiguità dell’aggettivo “alta” confonde i due piani, ma, se il percorso fatto sin qui attraverso l’arte figurativa e la letteratura in cui Oldani e Bottura stessi ci hanno condotto restituisce l’anacronismo e l’illegittimità del paradigma valoriale alto/basso, qual è dunque l’opportunità di definire “alta” una cucina per pochi? Su cosa (o su chi) si innalza l’“alta” cucina?

Un pensiero riguardo “Su cosa si innalza l’“alta cucina”?

  1. bravo, l’ho trovato molto interessante, anche un po’ difficile, ma comunque adatto a ridemensionare questa smania di apparire che alcuni cuochi hanno, e in fin dei conti sfamano una ridottissima elite di persone che possono avvicinarsi ai loro pranzi (detto fra noi sembrano adatti a persone a dieta, o con poca fame): ciao e ……..in bocca al lupo!

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